Dal Piave a Torino tra fame, lutti, fede e battaglie la genealogia paziente di un « santo dei nostri giorni» i CIOTTI la stirpe del mulino bianc o
giovedì 25 novembre 1999 La Stampa 0 commenti
                
Fiamma Nirenstein 
TORINO 
L'ALBERO genealogico di un santo dei nostri giorni ha la stessa aura 
mitologica di quella dei santi di sempre. Umiltà , sforzo, povertà , 
determinazione alla redenzione, e, per stemma, un mulino sul Piave: 
questa è 
la storia di Don Luigi Ciotti, nipote del « moliner» , il mugnaio di 
Borgata 
Rauta, a Sottocastello, frazione di Pieve di Cadore, un uomo gentile 
e duro, 
con i baffi, gli stivali, la fierezza di un ruolo socialmente utile 
ancorché 
modesto. Una famiglia geneticamente impastata di cattolicesimo 
sociale 
veneto, e di montagna, con tutta la sua carica messianica e persino 
rivoluzionaria. A causa di questa ascendenza, la matrice genetica di 
quest'uomo di 54 anni, sacerdote, occhi grigi, mascella quadrata, è 
fatta 
come di farina. La pala, la macina che compiono il miracolo della 
trasformazione sono i suoi strumenti, perché discernono il buono dal 
loglio 
e mettono l'uomo in condizione di fare il pane. Sempre che l'uomo sia 
pronto 
a spendere il sudore della sua fronte. Il nostro santo sa che la 
Divina 
Provvidenza ha bisogno di un valido aiuto. 
« Gesù è nato a Bethlehem, la città del pane. Il sacerdozio è appunto: 
spezzare il pane. Il nutrimento basilare. Certo, mi ha influenzato il 
fatto 
che mio nonno producesse il cibo umano di base, che ne fosse la fonte 
per 
tutta la popolazione del paese. Il mulino era l'indispensabile centro 
di 
tutta la nostra zona, un luogo indispensabile alla società di 
Sottocastello; 
la vita del nonno, finché ebbe il mulino, fu un andirivieni di 
persone, un 
vortice di utilità ; accanto, sul fiume, c'era la grande segheria. 
Finché 
l'acqua lo sommerse, quando fu costruito il grande bacino 
artificiale, il 
Lago Centro Cadore destinato a dare acqua a mezzo Veneto, compresa 
Venezia. 
Il nonno morì presto, un volta privato del suo mulino. Quando ero 
piccolo, 
subito nel dopoguerra, mi faceva compagnia, giocava con me in assenza 
di mio 
padre che era fuori a lavorare: era fiero del mulino, di cui 
raccontava 
molte storie, e del fatto che io mi chiamassi Luigi, come lui, Pio 
Luigi, 
padre di mia madre Olga. E io, sulla scia del suo mulino, sono 
tornato a 
distribuire il pane, in senso metaforico si capisce» . Don Luigi 
Ciotti 
chiude così il suo cerchio familiare. Anzi no. Tutt'a un tratto passa 
dall'elegia del ricordo al presente: si anima e prende l'occasione 
per una 
prima definizione delle proprie caratteristiche: « Però per me 
spezzare il 
pane è un impegno di giustizia. Non di solidarietà , né di legalità . 
Tutti 
hanno il diritto di sedere intorno al tavolo» . Si erge così sulla 
sedia il 
bambino povero, il montanaro figlio del capomastro Angelo che da 
piccolo 
mangiava a Pieve di Cadore polenta, castagna e semolino, che ha 
girato 
tutt'Italia dietro al padre operaio edile per sopravvivere. 
Ormai Don Ciotti è l'uomo che con il Gruppo Abele e tutte le altre 
sue 
invenzioni ha compiuto più strada verso diseredati, drogati, 
prostitute, 
immigrati di chiunque altro. L'uomo che quando chiedi « chi è » ti 
rispondono 
« un santo» . La sua sede a Torino è un andirivieni di gente 
affaccendata, di 
cui in breve si intuisce la potenza, l'ordine, l'assetto piramidale e 
carismatico, la meravigliosa e molto discussa fantasia filantropica. 
« L'avrà 
vista quella ré clame alla televisione, quella del Mulino Bianco. 
Sembra 
infantile, ma io quando la vedo, sono contento come un bambino: mi 
sembra un 
riconoscimento personale della bellezza della mia infanzia, il mulino 
bianco 
fra le montagne. Io ce l'avevo vero, voi oggi lo vedete in tv, sono 
orgoglioso. Mia madre, l'Olga, che andava ad aiutare il nonno al 
lavoro, mi 
spiegò la sua norma basilare: un mulino non si deve mai fermare. Mai. 
Una 
volta che si fermò , il silenzio svegliò tutta la famiglia di 
soprassalto, la 
buttò giù dal letto. Quando il nonno è morto, sulla sua tomba è stato 
scritto: “ Pio Luigi Tabacchi, il Moliner” . Quando hanno svuotato il 
lago 
dopo la sciagura del Vajont, sono corso a vedere dall'alto il mulino 
ormai 
nel baratro. Era laggiù ancora tutto intero, nella fossa enorme 
scoperchiatasi per caso. Tornavano dal passato il nonno Luigi, la 
maestosa 
nonna Angela, la seconda moglie. Rivedevo con la fantasia la madre di 
mia 
madre, Irene, morta di spagnola nel 1918, nell'epidemia di quel 
tragico 
dopoguerra. Da lei prende il nome una delle mie due sorelle, l'altra 
si 
chiama Vanna. Sono tutte più piccole di me che sono nato il 10 
settembre del 
1945» . 
Don Ciotti è un bell'uomo, indossa un maglione blu, sorride della 
cucina 
grande connessa al suo ufficio, è piantonato di continuo dalla scorta 
che lo 
protegge dalle minacce della mafia e dei narcotrafficanti. Tutte le 
fotografie appese sono memorie di famiglia e di montagna: si vede la 
povera 
casa, il nonno e uno zio insieme a un bambino. Hanno la zappa e una 
ventola 
del camino in mano sullo sfondo del paesaggio di montagna; ci sono le 
Tre 
Cime di Lavaredo; le stelle alpine; la nonna Irene; Olga e Angelo. 
« Suo 
padre, il nonno Andrea, era emigrato all'estero, a faticare. Morì 
quando mio 
padre aveva 18 anni. Essere orfani era una parte del destino di 
tanti; anche 
la mamma di Angelo era morta, anche lei di spagnola, quando lui ne 
aveva 
appena sette. Ha compiuto 88 anni poche settimane fa. In pochissime 
ore ho 
organizzato un pranzo familiare, nipoti compresi, da un amico che ha 
un 
ristorante di pesce. Mio padre era alle stelle. Ora lavora come 
giardiniere 
in uno dei miei centri, alto e magro com'è non dimostra affatto la 
sua età , 
sarebbe contento se non gli mancasse la mamma: anche a me del resto, 
mi 
manca tanto» . 
La famiglia di Don Ciotti fa capire da dove esce fuori la sua 
capacità di 
faticare e la santa prepotenza che ha costruito l'impero caritativo 
senza 
eguali che ruota intorno a lui. Quando Luigi nasce, il padre è ancora 
sotto 
shock: avrebbe dovuto andare al fronte russo, ma un ufficiale lo 
butta giù 
dalle scale della caserma di partenza, lo spinge via per salvarlo, 
poiché ha 
saputo che ha una giovane moglie. Olga lavora in una fabbrica di 
occhiali, 
la Safilo Lozza. I due si sono sposati nel ‘ 39. Le montagne sono 
piene di 
miseria e anche delle memorie gloriose ma soprattutto luttuose della 
prima 
guerra mondiale: la morte aveva attraversato ogni famiglia. 
La miseria è tale che già a 15 anni Angelo emigra in Calabria, 
incredibile a 
dirsi, e fa il manovale. Dopo la guerra trova lavoro a Napoli come 
capomastro, e Olga lo segue, ma poi torna in montagna con la mamma 
per far 
nascere Luigi a casa. Nasce Luigino a Pieve di Cadore, ma la 
residenza 
legale della famiglia Ciotti è a Napoli. Luigi ricorda benissimo le 
trasferte al Sud, la bellezza della natura, la gente che accoglie gli 
emigrati del Nord con molta grazia. Ma quando c'è lavoro al Nord, si 
torna a 
casa: tutta la famiglia si sposta ad Alba, dove Angelo costruisce le 
fogne, 
e si vive non male nella casa con i ballatoi di via Acqui. Poi, dopo 
che 
Luigi è finito all'ospedale per essere caduto nelle fosse delle 
costruzioni, 
la famiglia passa a Cherasco, dove il padre costruisce un ponte sulla 
Stura. 
Finalmente, nel 1951, Torino: Angelo costruisce una cosa molto 
importante: 
il Politecnico. Per abitare, la famiglia Ciotti ha una baracca con il 
pavimento di terra battuta, nel cantiere. « E' stata la casa più bella 
delle 
mia vita. Tutta di legno, uno stanzone con un tramezzo per separare 
la 
camera dei miei genitori dal resto del nostro regno. Tutti sempre 
insieme, 
dentro e fuori a piano terra, la stufa accesa, la ghiacciaia. Era un 
continuo luogo di educazione: la mamma era dell'Azione Cattolica, mio 
padre 
anche era religioso: ma sempre con discrezione, senza spingere a 
bigotterie, 
sempre, per quel che riguarda la mamma, con la discussione, il libro, 
la 
saggezza» . 
Luigi va a una scuola bene, la Michele Coppino. E' un alieno, anche 
perché 
non ha il grembiule nero: in casa ci sono i soldi solo per due 
grembiuli, 
quelli delle sorelle. La maestra aspetta un po', poi si secca della 
mancanza. Lo accusa, lo offende di fronte a tutta la classe: 
« montanaro» . 
Luigi le tira un calamaio in testa. « Hai fatto male, ma ti capisco» , 
gli 
dice la mamma. La Giustizia comincia a rompere le maglie della Torino 
perbenista, a scatenare il nuovo Don Bosco. Luigi ha l'accento 
veneto, non 
dice né la erre né la esse, viene ritenuto un disadattato, ma la 
mamma e il 
babbo lo rassicurano di nuovo. Ben presto la famiglia si trasferisce 
ancora, 
stavolta in Maremma, a Polverosa, per costruire le case dell'Ente 
Maremma 
per la bonifica. La natura è meravigliosa, nell'orto ci sono angurie, 
zucche, l'acqua si porta fresca in casa con le damigiane, finché 
Luigi, 
arrostendo i semi di zucca, dà fuoco a un pagliaio. Per un mese non 
esce di 
casa. Il padre Angelo non fa in tempo a disperarsi che ne capita una 
peggiore: Luigi e un cuginetto, Gianni, saltano dentro le case in 
costruzione sulle impalcature. Gianni precipita, quasi perde la vita. 
La 
famiglia sottosopra dopo tante disgrazie torna a Torino e conquista 
la prima 
casa vera, al quinto piano. Mentre il padre lavora a Courmayeur, 
Luigi 
guadagna qualcosa aiutando un accordatore di pianoforti. E' adesso 
che 
comincia per lui la strada del sacerdozio. Luigi dice che ha trovato 
a 
Torino l'idea di « lasciarsi mangiare dai poveri» . La famiglia non è 
entusiasta quando entra in seminario ma è dentro quell'eroismo 
particolare 
che richiede la povertà dignitosa che si legge la scelta di don 
Ciotti: il 
padre si spostava senza tregua per mantenere la famiglia spaccandosi 
la 
schiena; la madre, sola, leggeva i libri ai figli alla luce della 
candela 
anche quando mancava il pane; e raccontava quanto le stesse 
antipatico il 
duce quando la convogliavano a Belluno per salutarne l'arrivo, e come 
avesse 
partecipato al referendum per dare il nome al giornale Gioia 
dell'Azione 
cattolica, e come ascoltasse sempre Sorella Radio... Luigi ricorda 
come fino 
alla morte, avvenuta il 25 febbraio 1990, gli chiedesse di portarle 
da 
leggere qualche libro di storia. « E' stato per miracolo che mi 
trovavo a 
Torino il giorno della sua morte. Il Beeper mi ha chiamato, dopo 
tanti 
viaggi in Sicilia, dove cominciavamo a conseguire le prime vittorie 
contro 
la mafia, l'espropriazione dei beni dei criminali per dar lavoro ai 
giovani, 
la crescita di un movimento molto attivo che poi ha dato vita nel '95 
a 
“ Libera” un network che coordina oggi 700 gruppi antimafia. Le 
minacce erano 
state tante, e mia madre già da tempo viveva nell'angoscia. Sapeva 
che 
vivevo sotto scorta, era disperata, e non so darmi pace per questo. 
Ho paura 
di avere eroso con l'ansia gli ultimi anni della sua esistenza. In 
ambulanza 
quel giorno mi diceva “ Stavolta non ce la faccio” . E io: “ Forza Olga, 
non ti 
preoccupare” . Nella bara le ho messo la stola da prete, idealmente 
quella 
che mi fu data quando nel ‘ 72, l'11 novembre, il cardinale Michele 
Pellegrino mi disse ordinandomi “ la strada sarà la tua parrocchia” » . 
Da allora, litigando, facendosi amare, ricevendo donazioni o 
pretendendole, 
sgomitando perché « la parola di Dio è parola dura» , Don Ciotti ha 
realizzato 
tutto quello che gli ha suggerito la vita dei suoi genitori: 
apprezzare chi 
si sposta geograficamente per cercare il pane; respingere il concetto 
di 
emarginato, anche nei casi dei tossicodipendenti, delle prostitute o 
degli 
immigrati più reietti; evitare ogni sperpero con i centri di 
riciclaggio; 
combattere l'ignoranza con una valanga di pubblicazioni; aiutare i 
bambini 
del Terzo Mondo; i malati di Aids. Dispone di un esercito: presiede i 
230 
gruppi del coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, 
presiede 
Libera, è il fondatore e il capo del gruppo Abele dalla fine degli 
Anni '60, 
quando Angelo gli metteva di nascosto qualche soldo in tasca perché 
mangiasse e prendesse l'autobus. 
            