COME SALVARE LA PACE
lunedì 15 aprile 1996 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME IL Medio Oriente è di nuovo una polveriera, e lo
sconcerto è grande quando, dopo esserci abituati alla speranza della
pace, viene sparso altro sangue di civili. E di nuovo, il mondo
intero, le Nazioni Unite e le Superpotenze vengono chiamate a
condannare, a dirimere, a sedare. Sarebbe tuttavia indegno del più
comune buon senso se non cercassimo di comprendere la situazione con
gli occhi nuovi di cui il processo di pace ci ha dotato, se non
evitassimo di tornare agli stereotipi della pretesa cieca forza
militare degli , di un'incontrollabile
e innata tendenza di Israele a farsi largo con i gomiti. Guai a
dimenticare il sacrificio di Rabin, la grande ed encomiabile
capacità di Peres di contenere la rabbia di Israele di fronte ai
numerosi attacchi dell'integralismo islamico, la sua dedizione ai
partners di pace, primo fra tutti Arafat, la pertinacia nel ridurre
al minimo le risposte al fuoco concentrico di Hamas con i suoi
terroristi suicidi, e degli Hezbollah che ben prima delle Katiushe
della settimana scorsa coprivano il Nord di Israele di uno
stillicidio di attacchi. Bisogna chiedersi il perché di ciò che
accade, e in base alla realtà , e non a stereotipate fantasie,
difendere gli inermi, proteggere i civili, cercare la pace. Peres ha
ripetuto molte volte, quando si rifiutava di intervenire con i carri
armati ad Hebron dopo le stragi di Hamas sugli autobus, che preferiva
perdere le elezioni piuttosto che perdere la pace. Nessuno ha
dubitato delle sue parole allora, ed è giusto: Peres ha ambizioni
molto più grandi che non vincere le elezioni. Egli vuole essere
l'uomo della visione strategica che porta alla pacificazione del
Medio Oriente e al suo arricchimento. È sbagliato, e, mi si
consenta, alquanto provinciale, legare la sua scelta odierna al
risultato elettorale, anche se esso è certo presente nella sua
mente. Il fatto è piuttosto che la sua intera visione strategica,
pace più sicurezza, è messa in forse dagli Hezbollah e anche da
Hamas, perché essi siedono al centro di un gioco internazionale
indomabile. Peres ha cercato a lungo di prenderlo per le briglie con
l'aiuto degli americani: solo nei primissimi giorni di aprile, Warren
Christopher aveva garantito a Peres che dopo gli ultimi colloqui con
Assad si poteva contare su una tranquilla settimana di Pasqua per gli
abitanti della Galilea. I colloqui con la Siria sono destinati a
riprendere dopo le elezioni che avranno luogo fra sette settimane;
nel suo ultimo discorso, prima dell'escalation di fuoco, Hassan
Nasrallah, il capo degli Hezbollah, aveva dichiarato da una parte la
sua dedizione alla causa anti-israeliana, promettendo di spargere di
ossa ebraiche il Sud del Libano, ma anche di volere
pedina nelle mani del Libano e della Siria per renderle più forti
nel negoziato con Israele. Assad nel frattempo ripeteva agli
americani la sua disponibilità al processo di pace. Dopo, è
successo il finimondo: ovvero, sono del tutto fallite le armi
diplomatiche di Israele, che Peres ha usato fino all'impossibile. E
non si tratta di un fallimento tattico. È assai illusorio credere
che a tutt'oggi non esistano rapporti strategici fra Siria ed Iran:
basta guardare la loro alleanza militare giocata ultimamente
sull'acquisto coordinato dal Nord Corea del missile Scud C, un raggio
di 900 chilometri, ricevuto a un anno di distanza uno Stato
dall'altro, e di cui insieme siriani e iraniani hanno curato gli
impianti. Oppure la loro alleanza politica: ambedue i Paesi
sostengono tutte le organizzazioni palestinesi opposte ad Arafat, e
contrarie agli accordi con Israele, come Hamas; molte organizzazioni
site in Damasco sono finanziate da Teheran. Fra le rovine del
quartiere di Beirut di Bir al Abed bombardato da Israele,
campeggiavano di fronte agli occhi delle telecamere di tutto il mondo
le immense effigi di Khomeini. La Siria non ha impedito che nel Paese
su cui maggiormente si propaga la sua forza, si formasse uno Stato
khomeinista nello Stato, la Repubblica degli Hezbollah. Né il povero
governo di Rafik Hariri né il volpino Assad possono più trattenerli
da azioni ripetute ed eccessive. Ma ciò ancora non significa che
Assad sia disposto a battersi per bloccare gli Hezbollah e togliere
del tutto la sua amicizia allo Stato khomeinista. Assad oggi ha sì
un rapporto con gli Hezbollah, ma non li controlla, non più di
quanto Arafat controlli Hamas. L'Iran, anche se ha rotto con Arafat e
non invece con Assad, controlla sia Hamas che Hezbollah e li manovra
perché essi salvaguardino il suo spazio di futura potenza nucleare.
L'Iran in questo modo diventa sempre più influente. Se Hamas e gli
Hezbollah minacciano oggi la guerra totale, bisogna prenderli sul
serio; dietro di loro ci sono immense risorse di denaro e di vite da
buttare. Peres, inoltrandosi in una guerra da cui certamente vuole
uscire come ripete, senza acquisizioni territoriali e solo con un
cessate il fuoco, si imbatte, purtroppo per tutti, nello scudo umano
della popolazione libanese frapposta dagli Hezbollah tra sé e
Israele. Spingendo i profughi verso Beirut, Israele vuole creare una
pressione sul governo che si riverberi sulla Siria e la convinca a
rompere con Teheran e quindi a spezzare le mire dell'integralismo
islamico. Chi suggerisce che una strada per tagliare le unghie agli
Hezbollah sarebbe che Israele uscisse dalla fascia di sicurezza
semplicemente ignora che questa è una pura chiacchiera, una
menzogna. Agli Hezbollah, all'integralismo islamico, importa
soprattutto distruggere il processo di pace, Israele, e evitare che
il mondo arabo diventi un partner per l'Occidente. Fiamma Nirenstein