CHE COSA SIGNIFICA IL COORDINAMENTO DELLE SIGLE DEL TERRORE Un mess aggio di sangueal premier « che ha tradito» Il dato più allarmante è la presen za, attraverso i martiri di Al Aqsa di Fatah, il movimento guerrigliero t uttora vicino al presidente Arafat
lunedì 9 giugno 2003 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
NIENTE poteva essere più crudele e simbolico dell’ attentato portato
a
termine ieri, a pochi giorni dal summit di Aqaba: non soltanto una
rivendicazione da parte di tutte e tre le sigle del terrorismo
palestinese,
ma tre giovani in carne ed ossa, ciascuno con la sua diversa
appartenenza,
fior da fiore nell’ albo d’ oro dell’ odio, che appaiono nel consueto
video.
Non solo quindi una posizione di principio, ma un segnale di
coordinamento
intimo nelle scelte e nella loro realizzazione tra Hamas, la Jihad
islamica
e, questo è ciò che oltre a desolazione crea disperazione per chi
coltiva la
speranza di una svolta politica, delle Brigate dei Martiri di al
Aqsa, il
braccio terroristico di Fatah. Fatah, come tutti sanno, è la
formazione che,
nata in grembo ad Arafat nei primi Anni ‘ 60, ne è sempre poi stata il
partito, la forza militare, il guscio naturale. E’ Fatah che ne ha
fatto il
leader dell’ Olp, è l’ Olp che l’ ha vista nel corso degli anni
diventare la
sua punta di diamante e la sua rappresentazione più intraprendente:
in una
parola, l’ anima di Arafat.
Fatah non ha mai, dalla sua nascita, disdegnato o abbandonato lo
strumento
del terrorismo; e quando l’ operazione Muro di Difesa del maggio 2002
portò
l’ esercito israeliano nelle città palestinesi, là furono trovati una
quantità di documenti che comprovano il suo diretto coinvolgimento in
decine
di attentati terroristi. Per Abu Mazen, che viene da Fatah ed è un
uomo di
formazione tutta interna, questa firma di Fatah, quindi, con un
attentato
difficile e di lunga preparazione, mirato ai soldati e condotto in
una data
così vicina alla cerimonia di Aqaba, mentre le posizioni di rifiuto
totale
di Hamas e Jihad non sono una sorpresa, quella delle Brigate viene
come un
violento schiaffo. In una parola, la coalizione dei tre gruppi manda
ad Abu
Mazen un messaggio letale: « Sei fuori di qualsiasi consenso
palestinese, non
hai nessuno che ti sostenga» .
Hamas aveva già dichiarato il nuovo primo ministro un « traditore» , un
rinunciatario che aveva alzato le mani, un uomo di Bush e di Sharon,
e aveva
annunciato la prosecuzione della lotta armata. Lo aveva fatto con
senso
della realtà : poteva e può contare su un 75,3% dei palestinesi che
secondo
un sondaggio ritengono che occorra proseguire l’ Intifada; il 64,6%
crede poi
che il terrorismo sia un mezzo legittimo; inoltre il sostegno cresce
fino a
un picco del 90 se gli obiettivi si trovano nei Territori occupati.
Dunque,
le tre organizzazioni insieme hanno le spalle larghe.
In più , bisogna considerare le dichiarazioni di Arafat nei giorni di
Sharm
el-Sheikh e di Aqaba: da Muqata, ha prima dichiarato durante la
« Giornata
del fanciullo» che uno « shahid» (un « martire» bambino) vale
infinitamente di
più di qualsiasi altro; e poi dicendo che Sharon si stava limitando a
cedere
« qualche roulotte» in cambio della cessione della lotta armata dei
palestinesi da parte di Abu Mazen. Dichiarazioni molto deprimenti,
certamente, per il nuovo primo ministro palestinese, tutto intento in
questi
giorni alla trattativa, sia all’ esterno che all’ interno. All’ esterno,
per
cercare di indurre Israele a dare veloci segni di sollievo economico
e
civile alla sua gente; e per parte sua per porre fine al terrorismo,
condizione « sine qua non» per andare avanti verso lo Stato
palestinese da
stabilirsi nel 2005. Sul piano interno, per convincere Hamas alla
« hudna» ,
una tregua fra galantuomini che alla luce delle ultime dichiarazioni
dei
leader di Hamas, e soprattutto di questa ultima azione, sembra
impossibile.
E in secondo luogo per aiutare Dahlan, l’ autentico capo della milizia
armata
della sua parte, a preparare i suoi uomini a catturare i terroristi.
Adesso lo scontro sembra avvicinarsi immancabilmente: le Brigate dei
Martiri
di al Aqsa sono legate alle altre organizzazioni da un patto
strategico;
Arafat, che si è illuso di vincere l’ Intifada con l’ uso della
violenza,
seguita a condurre fantasie analoghe anche sul futuro. Pensa forse
che Abu
Mazen sia destinato a doversi genuflettere, e non capisce che non si
può
tornare indietro, che Abu Mazen non può ripiegare: dietro di lui,
infatti,
come un muro il mondo intero, e la messa alla prova dell’ intera
politica di
George Bush. Se la democratizzazione del Medio Oriente e la
conseguente
sconfitta del terrorismo non comincia dal conflitto per eccellenza,
quello
tra palestinesi e israeliani, non avrà mai luogo neppure altrove. Il
disegno
è strategico e mondiale, e Sharon ha accettato proprio per questo:
perché ha
individuato la possibilità di gestire il processo di pace non cedendo
quanto
più possibile a un potere che resta ostile, ma mettendosi in diretto
rapporto con un potere che invece si trasforma via via che la
trattativa va
avanti.
Il vecchio tipo di « peace process» , processo di pace, alla Bill
Clinton non
ha funzionato. Arafat non verrà compiaciuto e vellicato. E’ possibile
che
Abu Mazen tenti ancora nei prossimi giorni di cercare strade che lo
rendano
benvoluto al mondo palestinese ma, se questo - come sembra realistico
- non
avverrà , non vedremo tornare Arafat a decidere del futuro del popolo
palestinese. Vedremo semplicemente scoppiare una guerra civile.
L’ Italia è in questo momento posta dal destino, che vuole una visita
di
Silvio Berlusconi nell’ area proprio in questi giorni, in una
posizione di
grande responsabilità : quella in cui, conclusosi il tempo delle
cerimonie,
si conclude insieme anche quello delle chiacchiere. Il primo ministro
italiano vedrà Sharon e forse Abu Mazen: dipende molto da lui creare
un
senso di solidarietà che travalichi il consueto rapporto con gli
Stati Uniti
per superare la tradizionale ambiguità nei rapporti con l’ Europa, e
costruire una nuova fiducia.