Fiamma Nirenstein Blog

CACCIA AL LEADER PERDUTO

giovedì 14 aprile 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME ISRAELE è l’unica democrazia del mondo in cui non ci sia nessuno, proprio nessuno, che non sia legato da rapporti di estrema vicinanza con un giovane morto: un figlio, un fratello, un padre, un fidanzato, un migliore amico. Quando ieri mattina alle 11 ha suonato la sirena di Yom Ha Zikaron, il Giorno del Ricordo dei 18 mila soldati israeliani caduti nel corso delle guerre che si sono succedute dal 1948 a oggi, l’attentato di Hadera aveva avuto luogo da mezz’ora. La gente si è bloccata in mezzo alla strada, i guidatori sono scesi dalle macchine agli incroci e sulle autostrade, piangendo insieme di dolore e di rabbia. Una settimana prima la stessa identica scena era avvenuta nel giorno del ricordo della Soha, quando lo Stato d’Israele piangeva i 6 milioni sterminati durante la Seconda Guerra Mondiale. La bomba di Afula ha mescolato d’un tratto memoria e presente. Che cosa accade a un popolo che cerca di elaborare il lutto quando il raccoglimento è interrotto da un’altra subitanea tragedia, quando il presente sembra incalzare a dispetto del tentativo di collocare la morte nel passato? Innanzitutto ieri è accaduto che i simboli, le fiaccole accese, i discorsi di commemorazione, misti alle decine di testimonianze personali che la televisione israeliana seguitava a mandare in onda, si siano angosciosamente sovrapposti a immagini di sangue fresco; l’urlo della sirena della memoria si sia confuso con quello delle ambulanze. Tutta la ritualità del lutto, che consta di un grande sforzo fatto di monumenti funebri esigui e pietrosi, di canzoni, di quiete e disperate parole di madri e di amici, che secondo l’uso israeliano parlano soprattutto di piccole cose, di quello che il morto amava mangiare, cantare, dei film che preferiva,della ragazza che amava, della compagnia con cui andava a ballare, si è rotto sull’urgenza della nuova situazione politica. E quindi, il secondo effetto è stato quello dello spezzarsi della sequenza fra Yom Ha Zikaron, il Giorno del Ricordo, con Yom Ha Azmaut, il Giorno dell’Indipendenza, ovvero il 46 anniversario della fondazione dello Stato d’Israele. Il calendario prevede, con un difficile ma non impossibile equilibrismo psicologico, che il primo giorno, che inizia al tramonto, come tutte le ricorrenze ebraiche, sfoci direttamente nella celebrazione dell’indipendenza al tramonto successivo. Come a proclamare la vittoria della vita e anzi la sua capacità di germogliare dal sacrificio dei Caduti. Adesso il dubbio che sia difficile gioire e sperare spezza questo nesso basilare: , ha detto alla televisione la gente del Nord di Israele, la zona degli attentati. Questo anniversario della nascita di Israele è il primo in cui il processo di pace sia stato concretamente avviato: non solo i palestinesi, ma l’insieme del mondo arabo mostrano per la prima volta la volontà di riconoscere l’esistenza stessa dello Stato sionista. Da Binyamin Zè ev Herzl a Rabin proprio questo è stato il sogno del sionismo, una sua componente essenziale. E l’attuale leadership israeliana anche ieri ha mostrato, durante i discorsi di celebrazione dei Caduti, di ritenere che la pace sia la sua bussola fondamentale: Rabin, il presidente Weitzmann, Peres hanno ripetuto tutti quanti, fra le espressioni di dolore, la propria volontà di seguitare a trattare con Arafat e di realizzare il più in fretta possibile gli accordi di Oslo. Ma non sfugge a questa leadership che la sua forza e la sua stabilità sono legate alla possibilità effettiva di dimostrare di avere a che fare con un interlocutore attendibile, cioè che Arafat è il vero depositario delle scelte politiche ideali dei palestinesi. Infatti l’opposizione proprio su questo chiodo batte e ribatte: gli attentati - dice - dimostrano che Arafat non controlla la situazione e che invece Hamas e in genere l’integralismo islamico sono bene in grado d’influenzare l’opinione pubblica e l’atteggiamento degli abitanti dei territori fino a indurli ad attentati. Non solo, l’organizzazione degli estremisti è oggi così potente - dice ancora l’opposizione - da riuscire a portare l’attacco proprio nel cuore di Israele, lontano dagli insediamenti, all’interno dei confini del ‘49. Ed è certo che, benché Arafat mantenga tutta la sua rappresentatività simbolica, ogni giorno le cronache dei territori portano i segni delle divisioni interne del mondo palestinese. Colombe contro falchi, proletari contro intellettuali, militanti dell’interno contro militanti di Tunisi. È ovvio d’altra parte che, oltre ai gruppi che credono per religione nella preminenza islamica e che ritengono che gli ebrei siano un corpo geneticamente estraneo alla Regione, fra i palestinesi ci siano molti che non credono nelle promesse del governo israeliano o nel governo israeliano stesso, che non credono in definitiva che Peres e Rabin siano gli israeliani veri, quelli con cui si avrà a che fare per sempre, e che domani le promesse potrebbero essere infrante da una nuova leadership. I nemici spesso condividono intrinsecamente e visceralmente pezzi di storia; coltivano intrecci di sentimento, paure, odi simmetrici; e qui ancora una volta il destino israelo-palestinese s’intreccia in modo sorprendente nella dipendenza delle reciproche leadership. Mai processo di pace fu più legato a certi volti, amati od odiati che siano, a certe voci, a un certo stile. E a sua volta, nel processo di pace consiste la sopravvivenza di queste due leadership. Questa può essere una debolezza, ma può essere anche una forza della storia. Gli uomini oggi alla guida delle due parti non esisterebbero più se non nella prospettiva storica da loro stessi creata. Dopo il primo attentato, Arafat non si era espresso; dopo il secondo è stato però forte abbastanza da mostrarsi. E mostrarsi per un leader il cui ritratto viene esposto in così tanti negozi e in tante case nei territori, è sempre una carta fondamentale. Così facendo, infatti, Arafat ha ribadito il suo ruolo di protagonista, di vero interlocutore di Rabin. Poco dopo che la televisione israeliana avevano mandato in onda le parole di Arafat a Strasburgo, iniziavano le prime immagini della festa della Repubblica, con i suoi cori di bambini, con i suoi padri socialisti. Nei kibbutz si andava a cena con la camicia bianca; persino i boheme dell’ultrasinistra di Tel Aviv e i religiosi delle Yeshiva si sono inoltrati in quello che, si voglia o no, è il primo anniversario della nascita dello Stato d’Israele nel corso delle trattative di pace. Fiamma Nirenstein

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