AUSCHWITZ 50 ANNI DOPO HA VINTO LA MEMORIA DI PRIMO LEVI
domenica 15 gennaio 1995 La Stampa 0 commenti
IL 27 gennaio 1945 i soldati dell’Armata Rossa, stupefatti e
increduli prima ancora che percossi da ciò che si rivelava ai loro
occhi, entravano nel campo di sterminio di Auschwitz e ne liberavano
i settemila superstiti. Per la prima volta le macchine fotografiche
ripresero quegli scheletri viventi, fissarono nella storia i volti
dei bambini su cui Mengele aveva compiuto i suoi esperimenti. Circa
un milione e mezzo di persone, ebrei, polacchi, prigionieri politici,
omosessuali, zingari, erano stati qui sterminati sistematicamente
dalle SS fin dall’aprile 1940, quando Heinrich Himmler aveva
inaugurato il Campo. Trecentomila erano ebrei polacchi; 438 mila
ebrei ungheresi. Fra i circa novemila ebrei italiani venne internato
anche Primo Levi che scrivendo ci consegnava
l’unica possibile etica dell’Olocausto, ovvero quella degli infiniti
punti interrogativi che Auschwitz poneva all’umanità , su Dio,
sull’Uomo, e sulla possibilità di comunicare l’ineffabile e renderlo
patrimonio comune. Auschwitz poteva, può essere trasmessa, seguitò
sempre a chiedersi Primo Levi; la sua memoria e la sua esperienza
possono diventare patrimonio dell’umanità ? Oppure è realistico
l’incubo del reduce che parla frasi incomprensibili a un orecchio
insensibile? Oggi a cinquant’anni dalla liberazione di Auschwitz, con
la cautela a cui una così grande domanda e una così terribile
vicenda inducono, possiamo tuttavia rispondere che Primo Levi ha
vinto. Ha vinto il suo incitamento a non dimenticare, e in fondo
anche quello a ben ricordare. Non solo oggi la democrazia, il
confronto delle idee, con la scolarizzazione di massa e la diffusione
massiccia della tv, dei film, dei libri, degli articoli di giornale,
ha fatto sì che, in sé e per sé la storia dello sterminio degli
ebrei non sia più del tutto ignota quasi a nessuno e che sia la
pietra di paragone e di svolta del ventesimo secolo; ma anche che le
molteplici interpretazioni fallaci, i misfatti storici e ideologici
volontari o involontari che si sono avvicen- dati a coprire
l’Olocausto, si siano via via rarefatti. E del resto Primo Levi
stesso, nel modo in cui ci ha raccontato Auschwitz ne aveva messo in
luce le ambiguità , i nodi morbosi, la confusione tra vittima e
oppressore, tra Bene e Male, la possibile reciproca ferocia fra
vittima e vittima, le infinite sfaccettature che sono servite a far
ruotare la giostra delle colpe, delle indebite appropriazioni, delle
strumentalizzazioni, delle menzogne. Negli Anni Cinquanta ai reduci
dai campi si parò di fronte, prima di tutto, l’ostilità di chi non
voleva simili vicini, così carichi di sofferenza, così consapevoli
di inconfessabili segreti sulla cattiveria e la perversione umana. Su
tale negazione, si posò l’ideologizzazione che collocò il male
tutto da una sola parte, quella del nazismo, santificando le forze
opposte, dimenticando che né gli Alleati avevano voluto (anche se
sapevano) capire che cosa accadeva nei campi di sterminio; né la
parte comunista, certo, poteva dirsi monda da crimini contro
l’umanità , e lavarsi le mani nella storia della seconda guerra
mondiale. Si creò un alibi sacrale, il tabù dell’unicità
dell’Olocausto, che aveva scelto una sua base nelle dimensioni della
strage e nella macchina tecnologica-organizzativa messa in piedi da
Hitler per realizzarla, ma che servì poi, agli occhi dell’umanità
tutta, a mettere in un ghetto il tema degli ebrei nell’epoca nostra
rispetto alle grandi tragedie contemporanee. L’Unione Sovietica, la
Cambogia, la Bosnia, il Ruanda... Ognuna delle questioni
summenzionate ha figliato altre con- troversie, nei loro anfratti si
sono prodotte male piante. Perché , certo è giusto discernere e
sceverare (non è forse stato mandato assolto Demjaniuk, poiché
aveva compiuto crimini in un campo di sterminio piuttosto che in un
altro?), ma se la polemica attuale sul numero dei morti ad Auschwitz
diventa un’insinuazione; se l’ossessiva rivendicazione cattolica del
diritto a pregare sul luogo più sacro agli ebrei si fa invadente
ripicca; questo certo non aiuta una già tragica e lunghissina
elaborazione. Ad essa fanno da zeppa le controversie revisioniste
che, benché cerchino un innesto nel cinismo, nell’ignoranza, nel
desiderio di scandalizzare, appaiono oggi tuttavia tendenze
minoritarie. Piuttosto, ciò che è avvenuto negli anni è stata una
graduale desacralizzazione dell’Olocausto, un suo graduale
trasferimento concettuale dalla categoria della guerra fra il Bene e
il Male a quella della storia: storia degli Stati, storia delle
ragioni dei popoli e delle lotte delle democrazie contro le
dittature, storia dei diritti umani, delle guerre di religione, della
lotta fra razzismo e antirazzismo, della crisi europea. Ultimamente
poi la pace in Medio Oriente ha portato a Israele, lo Stato degli
ebrei, una visione finalmente depurata dalla paura, e in definitiva
dall’identificazione di ogni nemico (degli arabi, quindi) con i
nazisti. La memoria dell’Olocausto è passata dall’essere parte
integrante dell’identità ebraica ad essere parte integrante
dell’identità di qualsiasi democrazia che si rispetti, dell’uomo
democratico stesso. Per questo aveva vissuto Primo Levi. Per questo
possiamo celebrare con lacrime serene il cinquantesimo anniversario
di Auschwitz. Fiamma Nirenstein