ANALISI UN PAESE IN LUTTO Quando la pace costa troppo Ancora morti, I sraele si interroga
domenica 16 ottobre 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME OGGI la strada del processo di pace è assai più
impervia di ieri. Non c’è evento politico, ritiro dai territori,
discorso al Parlamento, interdizione di sorta (di portare armi o
circolare in auto nei territori), non c’è acquisizione positiva
(apertura dei confini, stretta di mano, trattato, Premio Nobel) che
abbia sull’opinione pubblica un impatto lontanamente paragonabile a
quello che è accaduto ieri in Israele: il sempiterno ripetersi del
korban, il sacrificio della morte dei giovani. La morte dei giovani
è ciò che sempre cambia la politica d’Israele: ha alla lunga
spodestato la destra dal governo; è il grande tabù con cui si
scontra la prospettiva del ritiro dal Golan, poiché è molto più
difficile lasciare le pietre su cui morirono migliaia di ragazzi nel
’67 e nel ‘73, piuttosto che abbandonare il West Bank; la Giudea e la
Samaria, infatti, non sono punteggiate a ogni angolo di cippi
elementari costruiti da famiglie, commilitoni, compagni di scuola,
con sassi, rami e un nome inciso. Il governo di Rabin e Peres, per
ora, subito dopo l’attentato, nel silenzio dello shabbat non affronta
la rabbia delle famiglie israeliane, ma solo il loro dolore. Oltre
tutto Rabin ha agito tentando il tutto per tutto, ha scelto la strada
moralmente obbligata (quella che scelse anche l’Italia ai tempi delle
Brigate rosse) di non trattare con i terroristi. Pure era pronto, ha
assicurato, al rilascio dello sceicco Yassin se fossero giunti
autentici segnali che la vita di Nachshon Wachsman era salva. La
destra, dunque, non trova ancora il modo di attaccarlo frontalmente,
sarebbe un sacrilegio. Ma presto lo farà e puntando sul più
elaborato e comune dei risentimenti: quello per i figli, i fratelli,
i fidanzati perduti. Non c’è famiglia in Israele che non si
identifichi in maniera molto diretta con la madre o con il padre di
Nachson. È rarissimo incontrare qualcuno che non annoveri la morte
di un giovane nella sua personale esperienza di vita. Oltretutto
quest’identificazione percorre mille strade della fantasia
collettiva, poiché è organizzata, contenuta all’interno di una ben
definita ritualità . Esistono organizzazioni di mischpachot
shachulot, ovvero , che organizzano centinaia di
migliaia di persone che hanno perduto figli, mariti, stretti
congiunti. Queste organizzazioni si occupano del dolore innanzitutto
cercando di lenirlo con manifestazioni cui partecipano le più
importanti cariche dello Stato. È molto comune che Rabin o il
presidente Weizman diventino amici personali di questa o di quella
famiglia, ne incontrino poi i membri anche in privato. Lo Stato
fornisce alle servizi di sostegno, come per
esempio gruppi di psicoterapia, occasioni speciali per incontrarsi,
spettacoli, facilitazioni nel lavoro o nell’acquisto di beni basilari
come la casa. I parenti dei giovani uccisi sono una dolorosa elite
nazionale, unita dalla pena e anche dalla continua ricerca di
spiegazioni, di consolazioni, e ormai, dai tempi della guerra del
Libano, unita anche in movimenti di protesta contro l’esercito e
contro lo Stato. I monumenti funebri alle giovani vittime di tante
guerre sono diversi da quelli di tutto il resto del mondo: uno dei
più importanti al Nord del Paese porta questa scritta:
guerre... Ma chi le ha inventate. Il tono è volutamente basso e
spontaneo. In questo stile, con frasi antiretoriche e materiali bassi
(pezzi di pietra, cortecce di legno, parti di vecchi fucili) Israele
ha costruito uno stile di monumento funebre che rispecchi la natura
nazional-popolare dell’esercito. Niente armi, niente frasi roboanti.
Non vi è neppure l’indicazione del grado gerarchico del morto
nell’esercito sulla pietra tombale. Allo Tzomet Golani (dove
probabilmente verrà sepolto il giovane rapito che era dell’unità
del Golan) vi è un basso, elementare, enorme luogo di memoria dei
giovani, dove sono raccolti, oltre a tutti i loro nomi scritti su un
muro, un album di fotografie per ciascun ucciso; cosicché chi si
reca in pellegrinaggio potrà contemplarne, oltre alla morte, anche
la vita. L’ufficiale ucciso nell’attacco al rifugio di Hamas, il
ventitreenne Nir Poraz, era figlio di un pilota a sua volta ucciso
dopo essere stato preso prigioniero nella guerra del Libano.
L’esercito proibisce ai figli di una di entrare a
far parte di una sajeret speciale, di un’unità ad alto rischio. Ma
il ragazzo aveva pregato la madre di firmare per lui la richiesta di
farne parte. La madre aveva ritenuto che il desiderio del figlio
andasse rispettato e aveva firmato. Adesso non ha più nessuno.
Storie come questa sono pane quotidiano in Israele ed è da questo
che è nata la disperata volontà di farla finita con la guerra. Guai
se s’infrange il sogno che questo sia possibile, guai se il Premio
Nobel diventa solo chiacchiera mondana di fronte a una realtà
geopolitica implacabile. Questo può essere il vero scoglio su cui si
arena il processo di pace. Fiamma Nirenstein