ANALISI UN NUOVO ATTORE Un posto al tavolo per l'Europa Il sogno del Continente: un ruolo nella pace
martedì 21 aprile 1998 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
ALLA vigilia dei grandi eventi, nessuno dei contendenti è mai
disposto a mostrarsi entusiasta. Così il plenipotenziario per i
rapporti con gli israeliani di Arafat, Sà eb Erakat nelle prime ore
in cui si è cominciato a parlare del summit di Londra ha subito
dichiarato che comunque, andare a discutere con Netanyahu, è
sempre una gran perdita di tempo. La destra israeliana ha esclamato
che di Blair nessuno deve importarsene niente, e che è molto più
serio ed importante in questo momento riflettere sull'assassinio
del colono perpetrato due giorni or sono da parte di un gruppo di
palestinesi nei territori. Anche Londra si è un po' spaventata, e
ha fatto sapere durante la giornata che forse era meglio riparlare
di dibattito, di conferenza, più che di un summit decisivo. Ma in
realtà sono chiacchiere, e lo si è subito capito quando Arafat,
che sa bene cos'è la politica, ieri pomeriggio sul tardi
all'uscita dall'incontro col primo ministro britannico a Gaza ha
detto che l'idea gli piace, che andrà a Londra il 4 di maggio.
I fatti parlano da soli, e ci dicono che si tratterà di un
incontro che potrebbe segnare la riapertura dell'intero processo di
pace. Prima di tutto, è assolutamente improbabile che un quartetto
come Arafat, Netanyahu, Blair, Albright, decidano di incontrarsi a
Londra solo per fare una figuraccia davanti al mondo rispetto ad
una discussione sul Medio Oriente su cui non si sa più se
disperarsi o sbadigliare. Chi sa di dovere dare una svolta politica
e di immagine è prima di tutto Bibi Netanyahu stesso che ha
sognato sempre di diventare un membro del club dei magnifici
cinquantenni che guidano il mondo, come un Clinton e come un Blair,
e che invece riesce solo a raccogliere biasimo internazionale.
Stavolta, se va al summit, certo non vuole uscire come il cattivo
della situazione, e sa dunque di avere in tasca la possibilità di
fare approvare dal suo governo un ritiro molto vicino a quello del
piano americano, intorno al 10%: infatti nelle scorse settimane ha
costretto Arafat, a forza di ripetergli il concetto di
reciprocità , a mettere in galera un buon gruppo di dirigenti di
Hamas; pochi giorni or sono ha messo l'inviato americano Ross alla
porta, apparentemente senza concessioni. Questo gli ha guadagnato
la fiducia di almeno una parte della destra della sua coalizione,
quella che prima seguitava a ripetere che comunque l'Autonomia
palestinese è complice di Hamas; e che Israele è un Paese senza
sovranità nazionale di fronte alle pressioni americane verso le
concessioni. Adesso Netanyahu, così come riuscì a restituire
Hebron e a far votare il processo di pace a larga maggioranza senza
far cadere la sua coalizione potrebbe a Londra tentare l'operazione
di concedere quel 10% che rende la trattativa possibile. Farà
così quello che gli hanno chiesto gli americani, ma
spontaneamente, o tuttalpiù perché Blair c'è tornato sopra. Tony
Blair, da parte sua, ha giocato e gioca un gioco molto grosso nella
sua immagine di statista e di uomo di pace. E gioca su molti
tavoli: è evidente il suo accordo preventivo con gli Usa, dato che
l'ha dichiarato, e che non scavalcherebbe mai con una proposta sua
il gemellino, e capo, Bill Clinton. Ma nello stesso tempo fornisce
a Israele la possibilità di guadagnare una buona opinione pubblica
e migliori affari presso la Comunità Europea, di cui il Regno
Unito occupa in questo momento la presidenza. Israele ha una lunga
tradizione di cattivi rapporti con l'Europa, e l'Europa
un'interminabile sfilza di tentativi di entrare nel gioco della
pace mediorientale. Se Blair prende due piccioni con una fava,
forse l'intero mondo mediorientale, che sa benissimo chi è Dennis
Ross, ma che non ha la minima idea di chi sia Miguel Moratinos,
l'inviato europeo in Medio Oriente, imparerà per la prima volta a
sillabare il nome Europa con qualche simpatia. E questo dovrebbe
far piacere anche ad Arafat, che ha sempre puntato ad incontri che
coinvolgano anche gli europei: non si tratterebbe forse di un
coinvolgimento diretto, ma è chiaro che sarebbe Blair a garantire
che l'Europa, il maggiore fra i contribuenti in aiuti ai
palestinesi e da sempre il continente con l'occhio di maggior
riguardo per le loro ragioni, sarà presente, vigile, rappresentato
sia pure nell'unico modo accettabile sia per l'America che per
Israele.
Arafat sa bene che dopo la sua sia pur parziale presa di posizione
anti Hamas ha bisogno di una rapida acquisizione politica che
dimostri a tutto il popolo palestinese chi è ancora il padrone. E
l'America in tutta questa complessa tessitura politica, conserva
senza ombra di dubbio il suo ruolo di grande mallevadore: la
Albright, se la si farà , resterà la madre della pace, avendo
ispirato il viaggio di Blair e avendolo reso il suo messaggero
privilegiato. Ma Blair a sua volta non si sarebbe mai messo in un
simile ruolo se non fosse sicuro che la luce datagli dal
conseguimento della pace con l'Irlanda del Nord gli fornisce un
bagliore particolare, che resta suo sempre e comunque, anche se
l'America è dietro le sue spalle.
Fiamma Nirenstein