ANALISI Un'altra figuraccia con l'amico americano
martedì 8 dicembre 1998 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
IN Israele è molto in uso una parola di origine yiddish: hutzpà .
Vuol dire improntitudine, sfacciataggine e anche qualcosa di
peggio: è un attributo tipico del sabra, colui che è nato in
Israele, e al sabra piace essere sfacciato. Stavolta, però , l'ha
fatta davvero grossa: la hutzpà per cui in queste ore cinque
ministri israeliani più il Presidente della Camera ripetono
apertamente che Bill Clinton farebbe meglio a non venire in visita
in Israele il prossimo fine settimana, rasenta lo scandalo e la
volgarità . Anche Benyamin Netanyahu, che ha mugugnato una frase
del genere: "Se viene bene, se non viene pazienza" e poi ha cercato
di correggersi un po', ha tuttavia l'aria di essersi pentito per
aver concordato a Wye Plantation la visita del Presidente americano
da trascorrersi metà a Gaza, in visita al Parlamento palestinese,
e metà a Gerusalemme, con un'appendice di gite turistiche anche
queste equamente suddivise fra i contendenti.
Perché Netanyahu e in genere gli israeliani si sono tanto pentiti
di un invito che invece, come testimoniano tutti i giornalisti che
erano a Wye era stato presentato dal Primo ministro israeliano come
una vittoria, una conquista del processo di pace? Per capirlo
bisogna partire dalle ragioni dell'invito che fu porto al
Presidente americano sia da Bibi che da Arafat e che Clinton
accettò con un entusiasmo che non si smorza neppure oggi: il
Presidente americano aveva infatti dichiarato la sua volontà di
visitare Gaza per sancire con la sua presenza sia il trattato di
pace in generale, sia in particolare la cancellazione da parte del
Consiglio Nazionale dell'Olp o, ancor meglio, della sua assemblea,
la famosa Carta che oltre a tanti principi nazionali proclama anche
la lotta armata per distruggere Israele. La solenne abrogazione
degli articoli incriminati davanti a tutti i palestinesi, a tutto
il mondo, agli Stati arabi nel loro complesso, con l'alta
testimonianza e un discorso di Clinton, rappresentarono agli occhi
di Bibi, a Wye, una grande garanzia di sicurezza.
Per Arafat poi era chiaro il vantaggio nello stringere un forte
legame con un Presidente che a volte sembra, dicono in Israele,
più vicino alla causa dello Stato palestinese che a quella della
sicurezza israeliana. Un personaggio, cioè , estremamente
amichevole nei confronti di Arafat stesso. Dai giorni di Wye
Arafat, però , ha fatto cucire 25 mila bandierine palestinesi e
americane da distribuire a Gaza, e altre migliaia ne ha ordinate a
Taiwan; fuor di metafora, la sua intenzione di trasformare la festa
americana in una pre-dichiarazione di esistenza piena dello Stato
palestinese, in un anticipo di quel 4 maggio che Netanyahu tanto
paventa, è evidente. Oltretutto gli israeliani hanno un autentico
timore che Clinton sancirà durante la seduta del Parlamento
palestinese qualcosa che sarà spacciato per cambiamento della
Carta, ma che non sarà veramente tale: infatti, su 300 membri del
Consiglio Nazionale dell'Olp per ora solo 25 hanno chiesto il visto
d'ingresso. La presenza prevista sarebbe dunque per ora assai
limitata.
Con tutto ciò due fatti dovrebbero trattenere Israele dal
riservare a Clinton un benvenuto meno che caloroso: il primo è che
gli Usa sono il miglior amico di Israele da sempre, da prima che
Ben Gurion si incontrasse con John Kennedy a New York; e adesso,
poi, Israele ha richiesto un miliardo di dollari agli Stati Uniti
per destinarlo al riassetto che comporterà il cambiamento
territoriale della nuova pace; il secondo fatto, è che davvero la
presenza amichevole del maggior leader dell'Occidente tra i
palestinesi è uno di quei fatti che comunque cambiano
l'immaginario collettivo dell'intero mondo arabo, avvicinano la
gente abituata a demonizzare gli Usa alla sua immagine reale. Bill,
quindi, se lo si guarda con sguardo non miope, è senz'altro anche
per gli israeliani il messaggero di una possibile pace prossima
ventura.
Fiamma Nirenstein