ANALISI Tramonta in Qatar la pace americana
venerdì 14 novembre 1997 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV
ERA stato inventato dal processo di pace il "Summit economico
annuale del Medio Oriente", e per tre anni aveva messo insieme
emiri con le kefiah di tutti i colori, guerrieri e dignitari arabi
con i pugnali al fianco, più un grosso, prosaico mazzo di uomini
d'affari, di giornalisti e di politici di tutto il mondo. Peres, si
può dire, ne era stato il vero reuccio con il suo utopico "New
Middle East", ovvero il nuovo Medio Oriente dove ognuno profitta
delle reciproche risorse e tecnologie traendone nient'altro che
vantaggi. Ora, giusto dopodomani, domenica, si apre una ben povera
edizione del summit in Qatar, un sabbioso staterello ricco di
petrolio sulla costa orientale dell'Arabia Saudita, abitato da
appena mezzo milione di persone di cui solo il 40 per cento sono
arabi, e il resto pakistani o iraniani. La conferenza era una
grossa scommessa per gli Stati Uniti che proprio in queste ore in
cui sta per decidersi il destino di un possibile scontro con Saddam
Hussein in un clima di isolamento internazionale, sperimentano
quanto poco attraente è in definitiva risultata la presenza,
promessa, di Madeleine Albright a Doha.
Di tredici Paesi arabi invitati infatti dall'emiro del Qatar,
soltanto tre, ovvero Yemen, Kuwait e Giordania manderanno delle
vere e proprie delegazioni. L'Oman manderà qualche delegato, ma
nessun uomo d'affari; il Kuwait, che l'anno prossimo dovrebbe (ma
ora sembra impossibile] ) ospitare la conferenza, spedirà solo il
direttore generale del suo ministero dell'Industria e del
Commercio. Altri Paesi arabi manderanno uomini d'affari ma non
delegazioni politiche. Gli ultimi tocchi della campana a morto sono
venuti dall'Egitto e da Israele stessa. Mubarak ha addirittura
richiamato l'ambasciatore egiziano indietro dal Qatar dopo che -
avendo il Presidente dichiarato che "il popolo del Qatar non aveva
in realtà nessun interesse in una conferenza economica" - la
stampa del Qatar gli aveva risposto per le rime pregandolo di non
interferire in affari che non lo riguardavano. Il retroscena
dell'ira di Mubarak però è l'incarico all'ambasciata americana
del Cairo affidato a Dan Kertzer, un ebreo americano osservante e
un pioniere del processo di pace che a sua volta ha come suo capo a
Washington Martin Indik, ora sottosegretario di Stato per il Medio
Oriente e a sua volta ebreo. Indik a malapena in un giro compiuto
in articu lo mortis per il Medio Oriente la settimana scorsa allo
scopo di salvare il summit, aveva ottenuto un sì stentato dai
sauditi che invece alla fine pare non vengano lo stesso, e che sul
loro giornale Ashrak al Awsat hanno attaccato apertamente gli Stati
Uniti scrivendo: "Ma gli arabi sono ormai così subalterni che gli
Usa possono costringerli a ricevere a casa loro il nemico (ovvero,
s'intende Israele, ndr)? ".
Nel frattempo, com'era logico, di fronte a tanta repulsione, il
ministro degli Esteri israeliano David Levi si è tirato indietro:
in Qatar, ha telefonato gentilmente al ministro degli Esteri di
quel piccolo Paese, vengano pure gli uomini d'affari.
Il summit, in definitiva, si è mostrato come un fallimentare
banco di prova della forza americana in Medio Oriente fin dalla sua
prima pianificazione. Infatti, alcuni mesi fa, in stile mafioso, i
siriani cominciarono a dire che sarebbe stato meglio per "il bene
del Qatar" cancellare il summit, altrimenti "per quel piccolo Stato
si creerà una situazione pericolosa". Poi avevano avvertito il
Kuwait di starsene a casa, pena un rapporto sempre più stretto con
l'Iraq. L'Egitto, poi, aveva un conto aperto con il Qatar per il
restringersi della quota d'immigrazione da 65 mila a 30 mila
lavoratori. I sauditi con il Qatar ce l'hanno sempre, anzi se lo
mangerebbero volentieri in un boccone, e proprio per questo il
Qatar aveva immaginato questo incontro come un momento di gloria
sotto l'egida americana. Gli è andata davvero molto male. Ha avuto
sfortuna per l'escalation della tensione con Israele, Netanyahu ha
fatto i suoi guai e fra gli arabi è comunque di gran moda scuotere
la testa a proposito e a sproposito, intorno a qualunque occasione
che riguardi il processo di pace. È anche un momentaccio per gli
americani. È chiaro che i Paesi arabi aspettano, prima di
ricercarne le amicizie, di vedere come sviluppa la storia di Saddam.
Fiamma Nirenstein