ANALISI Netanyahu, una firma che pare un miracolo
domenica 25 ottobre 1998 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV
IL 1997 fu chiamato da un grande giornale israeliano "L'anno
dell'odio per Bibi". Netanyahu, con la sua maschera gonfia e stanca
da cinquantenne invecchiato anzitempo e un'incongrua espressione da
duro, appariva ovunque in caricatura. Non c'è memoria di un
commento positivo a suo riguardo: tutti, in tutto il mondo, lo
hanno circondato da scandali di governo, messo alla berlina per il
suo inglese perfetto appreso in troppi anni di permanenza in
America; lo hanno dipinto come non affidabile né per gli amici,
nè per i nemici, soprattutto perversamente avverso alla pace quasi
per natura. "Avrei scommesso qualunque cosa che un minuto prima
della firma avrebbe cacciato un urlo, avrebbe dato di matto,
avrebbe dato uno spintone ad Arafat e sarebbe uscito. Non riesco a
credere a ciò che ho visto. Netanyahu che fa la pace. Lo odio
talmente che non accetto ciò che ho visto con i miei occhi. Un
giorno, forse, dovrò chiedergli scusa". Chi parlava così alla
cronista è nella fattispecie un dentista di Tel Aviv, un normale
professionista iscritto a "Pace Adesso". Egli rappresenta tuttavia
una sindrome generalizzata, un politically correct ormai classico
nel mondo. Bibi è certamente l'uomo politico democraticamente
eletto che più raccoglie antipatia, biasimi, accuse. Persino sua
moglie Sarah, suo padre Benzion, a suo tempo amico di Begin, e i
suoi figli sono stati additati alla pubblica riprovazione.
Netanyahu, eletto con pochi voti di scarto alle elezioni del
giugno '96, quando ancora la ferita dell'assassinio di Rabin era
fresca, è stato visto come l'affossatore degli accordi di Oslo,
anche se ha fatto votare l'intesa alla Camera, e poi ha sgomberato
Hebron. È stato addirittura indicato come il colpevole oggettivo
di quell'assassinio (Leah Rabin stessa è autrice di questa tesi).
L'idea che lo slogan su cui fu eletto al posto di Peres, ovvero
"Pace nella sicurezza", potesse contenere un aspetto ragionevole,
dato che Hamas seguitava a fare morti nelle strade con gli
attentati suicidi, non ha sfiorato la stampa israeliana né quella
internazionale. È stata vista come il mero pretesto per negare ad
Arafat i suoi diritti. L'"Economist" gli ha addirittura dedicato
una copertina su cui, accanto al faccione del premier israeliano,
campeggiava il titolo "Il grande sbruffone". Il "New Yorker" gli ha
dedicato un ritratto al fulmicotone intitolato "Lo spostato".
Netanyahu ha effettivamente creato molte situazioni che
contraddicevano il clima dei mesi precedenti: l'apertura di un
tunnel nella Città Vecchia a Gerusalemme; le costruzioni, sempre
nella capitale, in una zona particolarmente delicata al confine fra
Gerusalemme e Betlemme, Har Homa; e soprattutto, un anno fa, il
tentato omicidio del capo di Hamas, Khaled Mashaal, ad Amman. E,
fatto basilare, il mondo non può perdonargli che egli abbia
riportato al potere, dopo la riconquista del governo da parte della
sinistra nel '92, quel 50% più uno della popolazione che non è
così colto, che proviene dai Paesi dell'Africa e dell'Asia e non,
come i primi pionieri, dall'Europa.
Tutto il mondo si è dimenticato che le procedure disinvolte alla
Camera erano un appannaggio molto comune presso il governo Rabin;
che la frattura senza precedenti fra laici e religiosi è cresciuta
specialmente durante quel governo; che la situazione della
sicurezza ha raggiunto vette di pericolosità senza precedenti con
200 morti in pochi mesi, sempre allora. Tutti questi guai sono
stati attribuiti a Netanyahu, oltre a quelli che dipendono
veramente da lui, ovvero una sua mancanza basilare di rispetto nei
confronti del mondo arabo e una certa qual sua brutalità nel
trattare. Ma tuttavia, non è stato Netanyahu (anche se ha frenato)
a portare alla paralisi il trattato di Oslo; è la paralisi di Oslo
quella che ha condotto all'ascesa di Netanyahu. Di certo Bibi ha
superato alla vigilia di questo basilare trattato di pace attuale
la sua enorme diffidenza verso Arafat, la sua sfiducia verso
l'opinione pubblica internazionale, la sua autentica fobia verso la
possibile perdita del potere: e in questo lo hanno aiutato, per
così dire, quelli che l'hanno odiato e quindi spinto. E che ora
devono vedere, tuttavia, che il punto della sicurezza non era una
scusa, o un dato caratteriale di Bibi, ma una nuova frontiera su
cui anche Arafat si affaccia con grande interesse. Anche i
palestinesi possono guadagnarne molto.
Fiamma Nirenstein