ANALISI Netanyahu, gli amici giocati alla roulette
mercoledì 29 ottobre 1997 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV
IN tutta la vicenda di Bibi Netanyahu come primo ministro d'Israele
ci sono elementi razionali, e altri invece che vanno al di là
della comprensione di una persona normale. Perché si mette in una
situazione di estrema tensione col suo unico amico, gli Stati
Uniti d'America? Perché il suo ministro degli Esteri David Levy
invece di coprire il suo governo andando senza fiatare
all'appuntamento di Washington con il Dipartimento di Stato e coi
palestinesi lo attacca di fronte a tutto il mondo e dichiara che,
in mancanza di un mandato chiaro rispetto agli insediamenti e al
ritiro dalla West Bank, lui resta a casa? Perché uno come Evgheni
Primakov, ministro degli Esteri russo, che da quando sventolava la
bandiera rossa è il fautore di una politica (che possiamo definire
senza remore sovietica) in Medio Oriente che a memoria d'uomo ha
avuto scarsissime simpatie per Israele, riceve credito quando si
candida a diventare un "mediatore onesto", e nessuno lo sbugiarda
quando nega di vendere tecnologia nucleare all'Iran?
La risposta alle prime due domande è iscritta in uno schema per
cui Netanyahu è ormai considerato un leader sempre in bilico
sull'orlo dell'abisso, e magari anche sempre con una lettera di
dimissioni in tasca. A valanga, quando vere e quando false, quando
sussurrate e quando gridate, si rincorrono perennemente le
dichiarazioni che lo stigmatizzano come: "Una persona impossibile"
(Clinton); "non credibile" (Arafat a Chirac); "un pasticcione a
catena" (la copertina dell'Economist); e da parte dei suoi, manco a
dirlo, in tutti i modi più oltraggiosi. Al Parlamento israeliano,
martedì , l'apertura della stagione invernale ha segnato un vertice
di insulti.
Levy vorrebbe far fuori Netanyahu, non è un segreto per nessuno:
il premier lo scavalca senza riguardo in tutte le questioni di
politica internazionale. Clinton vorrebbe a sua volta veder
cambiare il premier israeliano e tornare ai fatti della politica di
pace di Peres. Non è certo un caso che, mentre è disposto ad
incontrare nella seconda settimana di novembre appunto Shimon Peres
in visita in America, abbia fatto dire a Netanyahu di non avere
tempo negli stessi giorni. Clinton sente anche che Netanyahu in
questo momento è debole rispetto agli ebrei americani stessi, la
più robusta tra le fronde filo-israeliane, da quando è in ballo
la legge che potrebbe mettere gli ebrei riformati (lo sono quasi
tutti gli ebrei americani) in un angolo, dando tutta l'enorme forza
della religione in mano agli ortodossi. Quanto ad Arafat, è chiaro
che più presto Netanyahu sparisce dalla scena, tanto meglio per
lui. E quindi, mentre in realtà sulle questioni del porto e
dell'aeroporto di Gaza e sul ritiro degli israeliani dalla
Cisgiordania ferve un dibattito teso, disordinato, indeciso, ma non
fossilizzato, Arafat tende a propalare l'idea che tutto quanto sia
fermo. Il tentativo di Netanyahu di spostare gran parte della
discussione sul tema della sicurezza e del terrorismo non ha
funzionato: anche perché il ritorno dello sceicco Yassin a Gaza ha
reso Hamas forte come non era stata mai di fronte ad Arafat, che
continua così ad essere un interlocutore poco affidabile proprio
sul tema del terrorismo.
In questo modo il premier, isolato, tende a trattare con i guanti
interlocutori poco credibili come Primakov (certo questo non fa
piacere agli Usa) che vorrebbe acquistare forza in Medio Oriente
senza rinunciare all'Iran e giocando tutto sul suo rapporto con
Assad di Siria. Ma Assad non è mai sembrato molto propenso, dalla
caduta dell'impero sovietico, a farsi consigliare e tantomeno
egemonizzare da nessuno. Netanyahu, tuttavia, sogna di avere la
"sua" pace con la Siria. E così trascura i vecchi amici proprio in
questi giorni, mentre si prepara l'importante e delicatissimo
summit economico del Qatar, cui sarà presente la Albright. L'unica
per ora disponibile a sedersi al suo fianco.
Fiamma Nirenstein
