ANALISI Nei cuori di Gerusalemme Ebrei, primo giorno senza persecutor i Sgomento e speranza per la nuova avventura del sionismo
mercoledì 15 settembre 1993 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME DAVANTI agli schermi televisivi ieri sempre accesi, si
sono incrociate in Israele discussioni dolorose, talora violente.
Chi si lamenta dell’ accordo raggiunto con l’ Olp, porta molte
ragioni, tutte relative alla sicurezza del Paese: l’
incontrollabilità del passaggio del terrorismo attraverso Gaza e
Gerico, le eventuali cattive intenzioni di Arafat, la sostanziale
volontà di fare di questo pezzo di terra una base che, passando per
la costruzione dello Stato palestinese, miri sostanzialmente alla
distruzione di Israele e alla sostituzione degli ebrei con gli
arabi. Su questi argomenti si leggono e si vedono moltissimi
dibattiti. Fra le risposte della sinistra quella migliore è che
Israele non correva certamente un pericolo minore nel momento dell’
ostilità proclamata. Quella più forte: quando Gaza si dimostrasse
una piattaforma alla mercè del terrorismo internazionale, Israele,
forte di un esercito che non tende affatto a smobilitare, potrebbe
sempre reagire con estrema decisione e stavolta, forse, anche col
consenso internazionale. Quello che colpisce di più , però ,
frugando nelle angosce e nelle proteste di tanti amici di ottima
ragionevolezza e levatura internazionale, è invece la paura della
fine del popolo ebraico, che molti citano come un orizzonte
realistico. È un antico tema: un vecchio libro di Georges Friedmann
collegava a suo tempo la nascita dello Stato d’ Israele con la
sparizione dell’ ebraismo diasporico, inteso come ebraismo tout
court. Anche i religiosi che non riconoscono Israele, pur vivendovi
e non servono nell’ esercito né pagano le tasse sostengono
sempre, con qualche buona ragione fattuale, che Israele non è
affatto lo Stato Ebraico. Ora però questo nuovo punto interrogativo
che pongono gli oppositori della pace ha una migliore consistenza,
degna di essere presa in considerazione (restare senza la barriera
dei Territori è davvero un azzardo strategico) perché la paura
della fine a ben guardare contiene due temi di tutto rispetto e anzi
di peso escatologico. Uno è quello della persecuzione, e il
secondo quello della diaspora. Se Israele avrà una vera pace un
elemento fondamentale di identificazione ebraica è destinato almeno
ad affievolirsi: il popolo ebraico ha subito a partire dai tempi
degli Egizi misteriose ed immense persecuzioni. Il loro passo è
plurimillenario, le loro ragioni tanto svariate e talora
inconciliabili che è impossibile sottrarsi all’ impressione che in
esse vi sia qualcosa che trascende la specificità storica per
identificarsi con una perversa elezione divina. Il fatto poi che gli
ebrei abbiano per duemila anni vissuto nella diaspora e non all’
interno di confini, ha fatto delle persecuzioni antisemite una sorta
di patria giudaica, in cui tutti gli ebrei, in mancanza di comune
denominatore culturale o religioso, si sono ritrovati. Lo Stato d’
Israele in qualche modo, con la sua storia di continuo funambolico
pericolo nel mezzo del mondo arabo, ha riproposto in altri termini,
poiché non è stata scelta la via dello Stato religioso, un’
identità ebraica minacciata, in cui il coagulo costituito dal
pericolo è stato decisivo. Infatti la zavà , ovvero l’ esercito,
è un momento molto particolare della vita dello Stato d’ Israele,
molto più denso di elementi formativi (nel bene e nel male) che in
qualunque altro Paese. E ancora, il giorno dedicato alla memoria
della Shoah è collocato nel calendario nel giorno immediatamente
precedente a quello dedicato ai caduti delle cinque guerre che hanno
insanguinato Israele dal ‘ 48 ad oggi. Una volta venuto a cadere l
’ assedio arabo palestinese, in un certo senso il popolo ebraico
israeliano e anche quello della diaspora va incontro a un periodo di
ridefinizione assai difficile, alla ricerca di una tensione che
tuttavia non può più essere religiosa, e che deve in ogni caso
tenere insieme tutti quanti gli ebrei d’ Israele. Quanto alla
diaspora, anch’ essa avrà a soffrire di grande mutazione. Israele
è l’ unico Paese al mondo ad avere una diaspora tanto attiva e
numerosa. Fino ad oggi essa si illuminava di passione soprattutto
nel momento in cui occorreva correre alla difesa d’ Israele; anzi,
trovava una sua ragione d’ essere nella raccolta dei fondi, nel
rapporto talora antagonista e problematico con Israele stesso, e
sostanzialmente gioiva nell’ essere comunque per Israele un
indispensabile interlocutore. Israele poi è stato a sua volta per
la diaspora un motivo d’ identità e anche un alibi rispetto a un
ebraismo vissuto parzialmente e in bilico; un’ assicurazione,
comunque, contro l’ assimilazione. Oltre a questo l’ aiuto a
Israele è divenuto una specie di sionismo per interposta persona,
mentre la sua situazione di guerra e anche di conseguente disagio
economico ha rappresentato un buon motivo per non affrontare il
problema se Israele sia lo Stato in cui gli ebrei devono vivere per
potersi considerare tali. In altre parole: la precarietà di Israele
ha reso finora precario e mobile anche il concetto di sionismo, lo
ha rimandato negli anni, lo ha colorato politicamente e moralmente
di tinte talora non accettabili per parte degli ebrei, ha creato una
situazione ad interim da cui oggi la diaspora è costretta ad uscire
insieme alla casa madre. Finisce dunque, in un certo senso, un’
epoca non solo per lo Stato d’ Israele, ma per gli ebrei in
generale. Quando si sarà rimesso dallo choc di questi giorni, per
l’ ennesima volta il giudaismo inizierà a ritessere la trama della
sua identità complessiva. Theodoro Hertzl oggi avrebbe di che
essere soddisfatto: comincia una nuova avventura sionista. Fiamma
Nirenstein
