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ANALISI LA SECONDA INTIFADA Ma nessuno ha ucciso la pace Washington è un nuovo inizio, non un fiasco

venerdì 4 ottobre 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV È giusto che il mondo intero si preoccupi per Israele e per i palestinesi dopo le giornate di sangue e dopo i silenzi e le mezze parole del summit di Washington subito definiti un . Ma è del tutto sbagliato immaginare che Arafat e Netanyahu se ne siano tornati a casa ciascuno arroccato sulla sua posizione, e oggi se ne stiano seduti in solitudine, ognuno per conto suo, sull'orlo del baratro. È sbagliato giudicare i fatti mediorientali in base a un automatismo intellettuale, anzi a due automatismi: il primo ci induce a pensare che ogni qualvolta un governo di destra siede alla guida di Israele, ciò è di per sé un disastro per la pace. Basta ricordare la pace di Camp David, fatta dall'uomo di destra Menahem Begin e da Sadat; o la conferenza di pace di Madrid, dove fu Shamir, un altro primo ministro di destra, dubitoso ma vinto dalla storia, a mandare la delegazione israeliana finalmente pronta a trattare con gli arabi, e oltretutto guidata da Bibi Netanyahu. L'automatismo peggiore, poi, consiste nell'immaginare che la porzione di storia ebraica rappresentata da Israele contenga qualcosa di fatalmente tragico, un invincibile presagio di sventura contenuto nel distacco dalla Diaspora. Fino ad ora, la realtà invece è che l'immensa sventura degli ebrei, ovvero l'Olocausto, è nato nella Diaspora, e non in Israele, Paese piccolo, precario, sempre in conflitto, Paese discutibile da tanti punti di vista; ma certamente, ormai, un conglomerato di acquisizioni civili e sociali incredibile, dato il brevissimo tempo che ha avuto a disposizione (e in quali condizioni) per creare le sue strutture, la sua democrazia, i suoi intellettuali, la sua scienza, la sua classe dirigente e anche il suo esercito. Netanyahu non deve essere riguardato per forza come un fatale affossatore del processo di pace, ma più realisticamente come un leader di centro destra appena eletto, che per ora non ha mostrato particolare brillantezza (al contrario), e che si è trovato serrato dalla sua campagna elettorale populista e allarmista, e però anche dalla sua stessa promessa di ottemperare all'accordo di Oslo. Perché Netanyahu, uno dei tanti leader di destra che si sono alternati con quelli della sinistra alla guida di Israele (un Paese dove l'alternanza è di prammatica) non è stato eletto per fare la guerra, ma sulla incerta, pericolosa parola d'ordine sicurezza. Essa, però , si è visto non era nella sua mente una strategia, ma solo un modo per rallentare un processo che a lui, e a una risicata maggioranza di israeliani, ma pur sempre una maggioranza, pareva troppo precipitoso e foriero di grandi rischi legati sostanzialmente all'integralismo islamico. Una volta al potere però , Netanyahu si è dovuto accorgere di malavoglia di molte cose: prima di tutto, che non poteva rimandare indefinitamente un incontro con Arafat se doveva, come doveva per gli impegni internazionali assunti, mandare avanti Oslo. Non poteva seguitare, inoltre, a tenere chiusi i Territori dell'Autonomia. E infatti, da 20 mila ai tempi di Peres, i lavoratori arabi che oggi entrano sono 37 mila, e c'è un piano segreto per arrivare a 100 mila. Dunque, Netanyahu ha incontrato Arafat, ha cominciato ad aprire le frontiere, ha lasciato perdere la confusa questione della chiusura dell'Orient House, l'ambasciata di Arafat a Gerusalemme, pretendendo solo la chiusura di alcuni uffici minori. Ha anche tentato di delimitare i poteri di alcuni fra i ministri più di destra, ancorché molto potenti, Ariel Sharon e Benny Begin. Però ha mancato di chiamare le cose con il loro nome, ovvero . Al contrario, per paura dei suoi compagni di governo, le ha lasciate in sott'ordine, e anzi, ha sempre avuto l'aria di farsi tirare per il bavero nel farlo. Così , mentre soddisfaceva i suoi nervosi partner nazionalista-religiosi, nel frattempo già studiava un modo di evacuare Hebron senza seguire la strada di Peres, ma cercandone una più simbolicamente confacente alla destra che venera quel luogo come un luogo santo. Però non ne parlava in maniera adeguata, e anzi seguitava a usare toni roboanti dicendo sempre; e non si accorgeva di compiere un errore fondamentale, perché smantellava tutto l'apparato simbolico di cui una pace così sofferta come quella israeliano-palestinese aveva avuto bisogno, e che Rabin e Peres avevano saputo mettere in scena. E di cui un leader, un rais come Arafat, non può fare a meno sia per andare avanti nelle trattative sia per rimanere in sella. Netanyahu ha creduto di poter fare a modo suo, perché non ha avuto sufficiente rispetto per Arafat, per la sua cultura, per i palestinesi. Non ha nel cuore lo stesso rispetto, la stessa apertura che hanno uomini educati all'ideologia libertaria socialista di Israele, come Peres e Rabin. Ha pensato di poter piegare il popolo palestinese ai tempi delle sue esigenze di governo e di costruzione della sua fama di uomo forte. Ma adesso sa che non è vero che i palestinesi sono plasmabili, e che quell'evacuazione da Hebron che è l'unica vera moneta di scambio del momento (magari lo fosse il tunnel, ma è impensabile una disonorevole marcia indietro sotto stress, per così dire) va fatta. E Netanyahu la farà . Dichiarazioni in comune a Washington non ce ne sono state, perché né Bibi né Arafat potevano rinculare eccessivamente di fronte al loro elettorato. Ma l'incontro al confine di Erez è stato spostato a questa domenica da venerdì della settimana prossima quando avrebbe dovuto avere luogo, e Arafat è tornato in patria con 10 milioni di dollari e grandi assicurazioni economiche, la seconda questione importante per la pace. Inoltre fra Netanyahu e Arafat, secondo le cronache, è nata un'inaspettata clamorosa simpatia personale. Netanyahu è un cinquantenne areligioso, aideologico, pragmaticamente dedito al proprio potere e a quello della sua parte politica. Non vuole che il partito Moledet (Patria) gli faccia una crisi di governo ma non vuole neppure rompere con gli americani, con gli europei, con il mondo intero. Ci ha provato a tenere gli arabi alla stregua di interlocutori minori, ma non gli è riuscito. Si può pensare per questo che abbia una tempra ideologica da voler trattare la storia come un primo ministro dal governo insanguinato? No. Netanyahu è pericoloso, ma non fatale. Fiamma Nirenstein

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