ANALISI LA PACE FERITA Il volto cattivo di Yasser Per gli ebrei torna ad essere
giovedì 27 marzo 1997 La Stampa 0 commenti
SARÀ difficile, stavolta, che Dennis Ross, l'inviato di Bill
Clinton, pur così esperto nel tenere a bada gli eccessi dei
palestinesi e degli israeliani, riesca, incontrando Arafat a Rabat, a
riportare il processo di pace sui suoi binari. Qui non si tratta più
di costringere Netanyahu a sgomberare una città , né di far votare
dal Parlamento palestinese la cancellazione della , o dagli
israeliani il benedetto accordo di Oslo. No. Stavolta si tratta di
far girare a ritroso il persistente nastro magnetico della percezione
collettiva di un popolo verso l'altro, di un leader verso l'altro,
cioè di tornare ai giorni non remoti in cui Arafat era uscito
finalmente dal cliché del terrorista, e Netanyahu da quello di
oppressore senza scrupoli imperialista sionista. Che sia vero o no,
il viceministro dell'Educazione, Moshe Peleg, ha rivelato che i
Servizi segreti hanno la prova che Arafat era stato messo al corrente
in anticipo del terribile attentato del 26 febbraio 1993 al World
Trade Center di New York. Peleg ha detto che le fonti dei Servizi
danno per certo l'incontro tra Arafat, alcuni leader sudanesi e la
jihad islamica. Il leader sudanese Hassan Turabi è il capo del
Fronte islamico nazionale, ed è anche un amico personale di Arafat.
Svariate fonti, sia americane, sia sudanesi, ripetono inoltre che
Arafat mantiene fra i 1200 e i 3000 guerriglieri di Fatah nei campi
sudanesi in cui si allenano i terroristi. Anche se il governo
israeliano ha replicato all'uscita di Peleg con un ,
tuttavia l'immagine di Arafat che trama contro gli Stati Uniti va in
questi giorni ad aggiungersi ai commenti israeliani, molti dei quali
di personaggi di sinistra sinceramente addolorati e delusi, in cui si
ripercorre in lungo e in largo il rapporto fra Hamas, la jihad
islamica e Arafat: prima, i giorni duri dopo i grandi attentati
dell'anno scorso, in cui Arafat dette il via a decine di arresti dei
suoi estremisti, e poi, però , via via che Netanyahu si mostrava un
tipo difficile alle concessioni, tanti atti di riavvicinamento ad
Hamas fino a quella che qui chiamano verso
l'attentato di venerdì scorso. Tra questi atti, la liberazione di
150 prigionieri dalle carceri palestinesi, e anche quella, piuttosto
scandalosa, del capo della parte più armata e oltranzista, Mohamed
Makadme. Si seguitano anche a collezionare notizie sui giovani che,
di ora in ora, suscitano la guerriglia nelle strade di Ramallah,
Betlemme e Hebron: non sono giovani scapestrati, ma tanzim, uomini
del Fatah, l'organizzazione che non muove foglia senza ordini di
Arafat. E si sa che in realtà Jibril Rajub, il suo capo della
polizia, non collabora più tanto volentieri con gli israeliani, non
reprime di fatto i moti, e non arresta gli estremisti. Netanyahu,
dopo le prime reazioni dure immediatamente successive all'attentato,
non ha più detto nemmeno una parola: il compito di svelare le
cattive amicizie di Arafat è interamente affidato all'esercito, ai
suoi Servizi e ai suoi generali che, con periodiche conferenze
stampa, seguitano a mettere in guardia la popolazione contro altri
possibili attentati e che non nascondono affatto che Arafat non è
più quella figura faticosamente costruitasi nell'inconscio
collettivo israeliano, sì partner, sì diverso per cultura e per
valori e quant'altro, ma pur sempre un partner. Va da sé che Arafat
sta dando a Netanyahu pan per focaccia, anzi, lo dà a tutti gli
israeliani: basta pensare al suo discorso ad Islamabad, di fronte ai
rappresentanti di tutto il mondo islamico: un discorso carico di una
tensione confinante con l'odio e con il disprezzo. E di questi
discorsi, seguiti da articoli, ce ne sono stati a iosa, subito
echeggiati in tutto l'islam, in primis dagli egiziani. Ora, che
Arafat avesse un rapporto molto complicato con il terrorismo
islamico, o comunque con le sue organizzazioni, non era certo
difficile intuirlo. Lo sapeva bene Peres quando gli chiedeva di
contenerlo, di proibirgli di operare. Non si riferiva solo al
rapporto di forza, ma anche alla supremazia politica e ideologica del
rais, alla sua indiscussa egemonia. Adesso a che servirà che Arafat,
dopo la terribile faticata degli israeliani per accettarlo, torni a
essere nella mente collettiva né più né meno che
come si diceva qui un tempo? Certo, in questa fase politica non è
molto, dal momento che egli resta l'unico, indiscusso interlocutore
d'Israele nel processo di pace. Invece, ad Arafat può servire ledere
la credibilità di Netanyahu come partner di pace, può servire a far
cadere il suo governo, cosa che ad Arafat, invece, non può accadere.
Sono questi gli svantaggi dei leader della democrazia. Ma il terzo
interlocutore, gli americani, sono tuttavia quelli che possono
innescare, con premi e minacce, la funambolica abilità di Arafat di
cambiare: egli, se ben spinto, da un giorno all'altro può
ricominciare nella sua vecchia politica di punizione dell'estremismo
che ha salvato Israele per un anno dagli attentati. E spingerlo
persino a riqualificare agli occhi dei palestinesi la figura di
Netanyahu, magari con un governo di coalizione alle spalle. Fiamma
Nirenstein