ANALISI LA MISSIONE DI HUSSEIN Il re che non vuole morire prima che s ia davvero pace
giovedì 22 ottobre 1998 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV
QUANDO re Hussein, calvo e senza baffi per la chemioterapia,
pallido, ridotto pelle e ossa, è apparso a Wye Plantation insieme
con Clinton, Arafat e Netanyahu, era tutto impettito, ornato di un
sorriso vigoroso e solenne. Se il pianeta Terra avesse dei
sentimenti propri, sarebbe stato percorso da un brivido di orgoglio
a sentirne i passi, avrebbe avvertito lo stesso senso di
trascendenza come per Gandhi o per Mandela. Lasciando il luogo
della sua cura contro il cancro, la Mayo Clinic, per andare al
summit del Maryland in una situazione fisica che secondo gli
analisti è quella di un morente che conduce tuttavia una battaglia
senza quartiere, il re ha superato la soglia che conduce certe
anime superiori a staccarsi del tutto dai propri interessi mondani,
che siano nazionali, etnici o economici, per aprire nuove frontiere
universali. La sua grande rappresentazione sul palcoscenico della
pace si è raffinata sempre di più negli anni sullo sfondo del
mondo più conflittuale che esista, in definitiva quello dello
scontro fra mondo musulmano e Occidente, per arrivare a formulare,
con la sua propria persona, una proposta originale e compiuta.
Quella di tenere come stella polare la pace restando tuttavia un
realistico stratega, di incarnare il meglio della fierezza e della
cultura araba senza renderla aggressiva, di porgere la mano al
nemico israeliano dopo una guerra durata 46 anni senza per questo
abbassare di un millimetro la testa.
Re Hussein regna dal 1953, cioè dalla tenera età di 17 anni su
un Paese riarso e povero, di 4 milioni di abitanti circa di cui il
70% palestinese, in buona parte ostile alla sua dinastia, quella
degli Hascemiti. Suo nonno Abdullah, che credeva in una fertile
amicizia con gli ebrei, fu ucciso da un estremista della sua parte
nel 1951. La strada di Hussein, che ha avuto Gerusalemme Est con
tutte le moschee in mano fino alla Guerra dei Sei Giorni, è
controversa come si conviene a un raiss mediorientale, piena di
zigzag in un deserto senza punti di riferimento e piuttosto
disseminato di agguati, in mezzo all'estremismo islamico che lo
considera pericolosamente prono alle lusinghe dell'Occidente, in un
corpo a corpo con Israele con cui ha fatto la pace e che pure gli
ha portato via Gerusalemme, di fronte ai palestinesi che lo
contestano. Con l'Egitto che non ha mai avuto simpatia per il
piccolo re recalcitrante e indisciplinato di fronte ad ogni
imposizione; con la Siria che lo considera un traditore della linea
dura anti-israeliana e un raiss pericolosamente aperto alla
democrazia; con i duri della zona come Saddam Hussein che gli hanno
sempre tenuto il respiro sul collo.
La grande strategia del re sta nella vicenda israelo-palestinese.
Nello stare di fronte ad Arafat come un alleato ma anche come il
capo riconosciuto di un'altra schiatta, con le sue guardie beduine,
senza scordare gli scontri del passato. Fu una guerra terribile
quella che portò il re a sparare, facendo caterve di morti, nel
1960 contro i palestinesi durante il Settembre Nero. Sempre il re,
tuttavia, ha saputo poi diventare il paladino dei palestinesi
stessi nella West Bank occupata nel '67, promuovendoli nel suo
Paese nei ranghi delle massime cariche (fino a primo ministro); e
ha saputo lasciare, il 31 luglio dell'88, ogni pretesa di
sovranità sui Territori, riconoscendoli come la culla ideale di un
novello Stato palestinese.
È qui che, salvo per il brutto momento della Guerra del Golfo,
quando il re si schierò con Saddam, Hussein comincia a battere
all'aria aperta le ali della sua grande aspirazione di pace fino ad
allora presente ma clandestina. In quanti alberghi di Londra, o di
Parigi o dell'Aia re Hussein ha incontrato di nascosto a partire da
anni lontanissimi quasi tutti i leader israeliani con cui era
ufficialmente in stato di guerra. Già nel '64 parlava
nascostamente di divisione delle acque con Yaacov Herzog; nel '70
firmava un trattato in cui in cambio della lotta antiterrorista
riceveva una grande area a Sud-Est del Mar Morto; nel '73 cercò in
tutti i modi di avvertire Golda Meir che i siriani e gli egiziani
si preparavano a sferrare una guerra concentrica nel giorno del
Kippur; poco più tardi chiese aiuto perché le forze occidentali
evitassero che gli Stati arabi ponessero, secondo la decisione di
Casablanca, alcune divisioni fisse di stanza in Giordania. Neppure
la Guerra dei Sei Giorni fermò il dialogo con Israele. Già due
settimane dopo la pace, Hussein svolgeva di nuovo il ruolo
diplomatico che sbocciò pienamente con l'avvento di Rabin al
potere. Ai primi inizi del mandato di Rabin, poco più di un anno
prima della pace nel deserto dell'Aravà , il re sorvolò deliziato
dallo spettacolo la capitale d'Israele mentre tutti gli israeliani
guardavano il suo aereo volteggiare col naso per aria. Rabin lo
chiamò per radio e i due si parlarono e risero.
Nel settembre del '94 la firma del trattato di pace avvenne sullo
sfondo di un grandioso deserto giallo e nero, con Hillary Clinton e
la moglie di Hussein, Muna, per caso vestite con lo stesso identico
tailleur turchese; i beduini con la kefiah rossa e bianca e i
pugnali luccicanti, Rabin con un cappelluccio da kibbutz contro il
sole cocente con su scritto "Ufficio del primo ministro" fecero
toccare al mondo il cielo con un dito. Al funerale di Rabin il
discorso più commosso, le lacrime più vere furono quelle del re.
E quando Netanyahu è stato eletto, Hussein è stato fra quelli che
dall'alto della sua somma saggezza ha evitato gli anatemi e le
offese roboanti. Il re ha portato a conclusione la controversia fra
Bibi e Arafat che consentì lo sgombero di Hebron, e che sembrava
allora più irrisolvibile ancora degli scontri di queste ore di
nervosismo a Wye Plantation. Questo è il re che ha saputo buttarsi
in ginocchio nel marzo del '97 davanti ai genitori delle bambine
israeliane uccise da un suo soldato sul confine. E ha detto loro:
"Mi vergogno"; e anche: "È come se fossero figlie mie". La
malattia allora lo aveva già consumato nel corpo, e lo aveva
lanciato in alto, al di là di se stesso.
Fiamma Nirenstein
