ANALISI LA FORZA DELLA STORIA La pace inesorabile Neppure il Likud la può fermare
giovedì 5 settembre 1996 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV NON un sorriso, ma nemmeno un'espressione di soddisfazione
da parte di Benjamin Netanyahu e Yasser Arafat: Netanyahu si è
alzato per primo, al di là del tavolo addobbato di fiori e di
frutta, coperto da una tovaglia celeste, e ha teso ad Arafat la mano.
Arafat si è levato dal suo posto lentamente e poi la stretta di mano
è durata quel tanto che potesse consentire ai cameramen e ai
fotografi di svolgere il loro lavoro, non un istante di più . I
notabili israeliani e palestinesi, seduti a fianco dei loro capi, non
hanno mosso un muscolo del volto: neppure i tessitori dell'accordo,
neppure Dore Gold, il cervello di Netanyahu per le questioni
palestinesi, neppure Saheb Erahat, uno dei tessitori della corsa
convulsa verso questo incontro, giorno e notte nell'appartamento di
Tel Aviv di Terje Larsen, il grande mediatore norvegese. Se c'era
bisogno che la pace si mostrasse ancora una volta nuda nella sua
essenzialità , come un assoluto astratto, ineluttabile, ecco che ieri
questo miracolo è avvenuto. Antipatia personale, incomprensione
politica, persino ferite non rimarginabili (nel '76 Yonathan, il
fratello di Bibi, perse la vita a Entebbe per mano palestinese),
affermazioni e promesse fatte per catturare il favore del pubblico,
niente ha potuto fermare questa difficile pace mediorientale. Tutti
ricordano la prima stretta di mano fra Rabin e Arafat: già allora la
postura del corpo di Rabin, l'espressione contratta e affaticata del
suo viso esprimevano il dolore del parto di Oslo. Eppure, Rabin aveva
maturato l'idea che la pace fosse necessaria per convinzioni
ideologiche e politiche. Non così Netanyahu, che ha impostato tutta
la sua campagna elettorale sulla pericolosità del processo di pace,
sull'inaffidabilità dell'interlocutore da lui più volte definito
, sulla sacralità di Hebron, sulla fretta eccessiva
di Rabin prima, e poi di Peres, e persino sull'aver usato
intermediari stranieri. Ed ecco che questo incontro al check-point di
Erez, sul limite di Gaza, avviene invece all'insegna di una fretta
indiavolata, maggiore ancora di quella che Netanyahu aveva imputato a
Peres, dovuta alla prossima partenza del primo ministro israeliano
per gli Usa, verso un incontro con Clinton che esige da Israele un
pegno elettorale; e dovuta anche alle pressanti informazioni dei
servizi segreti sul pessimo umore dei Territori. Avviene sulla base
di una ridiscussione della questione di Hebron che non cambierà di
molto i termini originali dell'accordo, e della prossima apertura
della West Bank e di Gaza, rimaste a lungo serrate mettendo
l'economia palestinese in ginocchio. Nello stesso tempo però questa
chiusura era la garanzia di sicurezza che sta alla base della
politica di Netanyahu, e a cui evidentemente il premier si appresta a
rinunciare. Gli accordi di oggi avvengono persino sulla base
indispensabile della mediazione dello stesso Larsen che
Peres e Rabin avevano usato come mallevadore per gli accordi di Oslo
1 e Oslo 2; ora Bibi lo chiama , ovvero . Arafat a
sua volta con l'incontro di ieri è sceso dal podio su cui nei giorni
scorsi aveva fatto mostra di terribile determinazione, promettendo
l'Intifada, indicendo manifestazioni, usando parole di fuoco contro
Netanyahu, definendolo , come hanno riportato i
giornali palestinesi. Si sa che ieri alle 4, un'ora prima
dell'incontro, Arafat ha telefonato al suo interlocutore per scusarsi
dell'incidente. Persino la metodologia degli incontri degli ultimi
giorni ripete lo schema di Oslo, tanto disprezzato un tempo da tutto
il Likud: una sequenza di interminabili ore in maniche di camicia in
cui palestinesi e israeliani prendono accordi non scritti (anche
questa una metodologia esecrata in campagna elettorale) e si parla
però anche molto dei propri figli, delle proprie mogli, della vita
personale, insomma si crea un rapporto. Mentre in queste ore una
parte del Likud si batte il petto per aver visto il suo leader fare
l'impensabile, stringere la mano al , di fatto
stanno cadendo in Israele un'altra barriera ideologica, un altro
incubo dell'inconscio collettivo. Quando toccò a Rabin molti
pensarono: . Oggi tocca
all'elettorato di Netanyahu attraversare lo stesso choc culturale che
allora attraversò l'elettorato di sinistra. E intanto di nuovo il
popolo palestinese sa che il suo Raiss è in sella, non è in crisi,
ha saputo strappare di nuovo una promessa di pace e di prosperità al
suo più potente vicino, e gli estremisti islamici sono costretti ad
abbandonare il sogno di rovesciare l'antico capo, di una nuova
Intifada. Netanyahu e Arafat hanno avuto coraggio. Ora, alla luce del
sole, dopo tante ore spese nel come è stata chiamata
la foresta d'incontri e di colloqui segreti di questi giorni,
riprendono il cammino. Non per mano, come con Peres, ma certo fianco
a fianco. Fiamma Nirenstein