ANALISI IL NODO DA TAGLIARE Premio all’Incompiuta La pace non c’è , re sta la speranza
sabato 10 dicembre 1994 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME SHALOM, shalom ve ein shalom; pace, pace e la pace non
c’è . Così il profeta Geremia spiega perché il popolo, dopo che i
politici e i sacerdoti lo avevano riempito di promesse e di
chiacchiere su una vita migliore, avesse perduto la fiducia e
l’unità . Ora, il Premio Nobel per la Pace che questa sera Yitzhak
Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat ricevono a Oslo, nonostante lo
sconforto e l’ironia che ha circondato la loro partenza da Israele e
da Gaza, non è né immeritato né vuoto di contenuto. Ma è certo
insanguinato, controverso e soprattutto pericolosamente proiettato in
avanti, una specie di disperata richiesta al futuro. Forse gli uomini
del compassato Nord Europa al momento del trattato di Oslo non hanno
valutato e neppure intuito fino in fondo quanto quest’area possa
inghiottire buone intenzioni, firme, documenti, cerimonie. I
vincitori del Premio hanno molti meriti soggettivi, anche se è vero
che il passato di Arafat sposta il significato morale del Nobel verso
un versante sempre più spiccatamente politico. Tuttavia i tre hanno
saputo valorosamente scavalcare, tutti quanti, la frontiera del
reciproco riconoscimento. Israele ora è un Paese col diritto alla
sopravvivenza e alla sicurezza; l’Olp è un movimento di liberazione
nazionale di un vero popolo, quello palestinese. L’inamovibile
esercito di Israele è stato ritirato da Gaza e da Gerico; la
Giordania e altri Paesi della regione hanno stretto accordi e
scambiato ambasciate con l’irriconosciuto ospite, l’antico Nemico
Sionista. Tutto questo non si cancellerà più : Rabin, Peres e Arafat
hanno provocato, evocato, catalizzato un cambiamento che non si
decideva a venire ma che era nelle cose. La gloria che gliene deriva
è meritata. E tuttavia un Nobel per la pace non è un premio a uno
spunto, a una buona intenzione; dovrebbe essere un riconoscimento per
un fatto compiuto. Non è un articolo di giornale che coglie una
tendenza, anticipa una realtà . Invece la Commissione sembra aver
lavorato secondo uno stile cronistico. L’accordo di Oslo oggi è
fermo: nessuno, è vero, aveva previsto né poteva prevedere la
grande insorgenza di integralismo islamico, il diffondersi degli
attentati suicidi- omicidi da parte di Hamas e della Jihad. Se non ci
fossero stati, probabilmente in questo periodo, quello in cui era
appunto previsto il ritiro dell’esercito israeliano dai Territori
prima delle elezioni, il patto sarebbe stato almeno in parte
realizzato. Così non è : i palestinesi si sentono traditi, gli
israeliani minacciati. E tutte le accuse di Arafat circa le
responsabilità occidentali rispetto alla tragica realtà economica
di Gaza, circa i soldi che non arrivano, trovano un’accorata risposta
dall’altra parte sull’impossibilità di dar fiducia all’instabilità
che oggi caratterizza i palestinesi. Dunque, le querimonie sono
simmetriche, stanno a zero. Ciò che è vero è che né Arafat è
pronto a staccarsi dall’antico rapporto con la parte più estremista
dell’opinione pubblica palestinese, né Rabin è pronto a lasciare
tutti interi i Territori al suffragio palestinese. Ognuno ha buone
ragioni di sicurezza, e soprattutto di politica interna. E proprio
qui sta oggi il nodo del processo di pace. Il Premio Nobel sarà
stato ben dato soltanto se il governo israeliano e il gruppo
dirigente che fa capo ad Arafat da ora in avanti, forse ispirati dal
riconoscimento ricevuto, capiranno che uomini che hanno compiuto
nella loro vita un passo importante come quello fatto stringendosi la
mano, devono dimenticare completamente ogni interesse politico e
personale. Non deve importare loro più niente di vincere le prossime
elezioni, non devono prendere in considerazione la perdita di una
fetta dell’opinione pubblica che li ha sostenuti, non possono neppure
(si può osare dire) pensare alla propria incolumità politica e
personale. La pace per progredire ha bisogno di decisioni
drammatiche, estremamente coraggiose, forse persino un po’ insensate.
Oggi come oggi, infatti, non è del tutto logico che Rabin e Peres
decidano di far evacuare l’esercito dagli insediamenti o almeno da
alcuni di essi mentre Hamas minaccia realistici attentati ad ogni
minuto contro i residenti. Ma è l’unico modo perché le forze
palestinesi possano giocare il libero gioco elettorale, venire allo
scoperto. E consentire ad Arafat, che ne ha ancora le forze, di
sconfiggere Hamas o almeno di stringere con esso un compromesso
politico e non clandestino. Non è tanto logico per Arafat, mentre
l’esercito israeliano ancora non se ne va dai Territori, decidersi a
far guerra agli estremisti, mettere in galera i capi che tutti sanno
dove sono ma nessuno cattura, perché l’opinione pubblica interna
potrebbe rivoltarglisi contro. Ma è l’unica strada per consentire a
Rabin di ritirarsi dalla Giudea e dalla Samaria, sia pure correndo un
rischio. Se i leader saranno coraggiosi, questo porterà la pace? Non
è detto. Quaggiù da sempre non si conosce che guerra. La stretta di
mano controvoglia fra Rabin e Arafat anche fra un anno sarebbe
probabilmente stata eguale, reticente, distante, accompagnata
dall’ombra della morte. Dunque, dopo questo Nobel macchiato di sangue
la pace dei bravi deve diventare pace degli ostinati, e persino dei
duri. Fiamma Nirenstein