ANALISI IL LUTTO MEDIATICO Ma la politica censura il dolore Una cerim onia senza discorsi pubblici
martedì 9 febbraio 1999 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME
STESSI alberi, cedri ed abeti, stessa polvere fina sulla strada,
stessa luce piovigginosa e insieme desertica, stesse pietre chiare.
Gerusalemme e Amman, ieri, nel giorno del funerale del re, hanno
vissuto insieme un dolore e un pauroso flash-back. A vedere di
nuovo, in un lasso di tempo così breve congregarsi i leader di
tutto il mondo ad Amman per seppellire re Hussein, ammirando le
spade dei sultani dell'Oman, le kefie rosse dei beduini e quelle
dei sauditi, vedendo alta come la testa di Alberto di Giussano
quella di Clinton, sopra la folla delle teste coronate, scorgendo
la massa dei leader dell'Oriente e dell'Occidente avanzare al suono
di una marcia funebre, non si poteva evitare di ripensare il
funerale di Rabin, quasi di rivederlo. A poco più di tre anni di
distanza da quel 4 novembre 1995, la Giordania ha condiviso con
Israele la sorte di perdere prematuramente il suo grande leader di
pace: i ricordi sono cocenti. Il paragone viene naturale.
Due sono i nessi più immediati: il più ovvio è la gente. Il
dolore genuino del popolo lungo la tortuosa strada del funerale,
con le persone strette l'una all'altra nella disperazione, nella
paura del domani; il grande punto interrogativo sul futuro dipinto
sul volto dei giovani, il senso di rabbia dovuto all'espropriazione
imprevista. Identico è anche per i due grandi funerali il loro
carattere di evento globale: per il nonno di Hussein, Abdallah,
assassinato a Gerusalemme 48 anni fa, o per la sua amica Golda
Meir, certo non si spostarono tutti i grandi del pianeta. Furono
funerali intimi, regionali, ciascuno pianse il suo morto per quanto
significativo. Adesso tutto il mondo, invece, è padrone delle
scelte del vicino, le controlla, le patrocina, o le combatte. Rabin
e Hussein appartenevano a tutti, la loro scelta di pace era di
tutti, e ad ambedue i funerali, oltre che a piangerli, i leader del
mondo sono venuti per dire: "La sua via era anche la nostra, quindi
continuate come voleva lui". Nel caso di Rabin è servito a poco;
nel caso di Hussein già si vedevano, sul posto, oltre ai
sostenitori della pace, anche personaggi molto problematici. Il
più controverso, oltre ai vari leader sudanesi o iraniani, il
siriano Hafez Assad, che arrivato per ultimo, e tuttavia per primo
è stato introdotto al cospetto del nuovo re. Il suo messaggio,
certo, non somiglia a quello dell'Europa o dell'America. Il suo
interesse è piuttosto tirare la Giordania nella sua zona
d'influenza a cui Hussein l'aveva disperatamente sottratta; dal '96
i due non si incontravano. Ma Abdallah, ieri, aveva un'aria serena
ed equidistante, anche se giovanilmente onorata dalla visita.
Siamo così giunti alle differenze tra i due grandi funerali: a
Gerusalemme il dolore, l'emozione, cancellarono il protocollo.
"Shalom haver, addio amico" disse Clinton tra le lacrime; "un
valoroso soldato in guerra, è diventato il più grande soldato
della pace e uno degli amici di cui vado più fiero" singhiozzò re
Hussein; e la piccola Noah chiamò il nonno dal profondo dello
strazio di un cuore ancora bambino, incredulo dei mali del mondo,
mentre nonna Leah sedeva impietrita di fronte alla bara. Invece al
funerale di Hussein, dove pure il dolore era tanto, lo strazio non
ha potuto esprimersi. Prima di tutto perché mancavano le mogli e
le figlie, le donne, che sono le più sincere, radicali interpreti
del dramma umano. Eppoi, la dinamica politica ha impedito, ad
Amman, l'espressione verbale del dolore. Essa non ha potuto uscire
fuori per un motivo evidente: anche se dietro le quinte i leader
hanno intrattenuto colloqui, un discorso pubblico di Clinton certo
non sarebbe stato apprezzato dagli iracheni, o dai libici, o dagli
iraniani, o dai siriani, o dai sudanesi, o dai pachistani. E
viceversa. Ezer Weizman o Clinton, d'altra parte certo non
avrebbero sopportato un'elegia carica di significati, di rimpianti,
di speranze e quindi di valori che fosse per esempio, che so, di
parte irachena. La lenta marcia dietro il feretro, gli sguardi, il
cerimoniale, avrebbero dovuto sostituire le parole, accomunare i
presenti nel dolore. Il silenzio invece gridava le differenze e i
conflitti, estremismi che ancora promanano dal mondo mediorientale.
Tuttavia, bisogna dire che il funerale di re Hussein ha saputo
riunire mondi inconcepibilmente distanti. Quindi, rispetto a quello
di Rabin è un passo indietro, ma anche uno avanti, nel processo di
pace.
Fiamma Nirenstein