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ANALISI GUERRA E PACE E al secondo giorno divenne Presidente La metam orfosi del nell’inconscio d’Israele

domenica 3 luglio 1994 La Stampa 0 commenti
TEL AVIV DA fantasma cattivo a uomo in carne e ossa, quando Yitzhak Rabin strinse tra le sue le mani di Yasser Arafat; e adesso da essere umano a Presidente. Veloci e un po’ affannate da tanto rapido cambiamento, le menti degli israeliani hanno in questi giorni corso dietro agli eventi. I media hanno lavorato incessantemente nell’elaborazione collettiva della visita di Arafat, dell’immensa soddisfazione dei palestinesi, del sorriso da gatto del grande consigliere Nabil Shahat, e la fierezza delle moltissime divise che i palestinesi amano mostrare a simbolo dell’appena conquistata autonomia. Naturalmente anche il fronte del rifiuto, intanto, si dava da fare con le parole e con le manifestazioni di piazza. Ma solo i coloni o i religiosi più neri sono venuti con cartelli e slogan, la gente della strada era ben poca. I giornali portavano tuttavia i loro annunci, in stile apocalittico: invocato la guerra santa sulla nostra Gerusalemme, e adesso è alle porte. Yitzhak Shamir, sconsolato, aveva dichiarato che la visita del capo dei palestinesi significava né più né meno che l’inizio della distruzione di Israele. Ma nei primi due giorni della visita, gli atteggiamenti roboanti hanno subito un duro colpo. Due show si sono svolti paralleli alla tv, davanti agli occhi degli israeliani: da una parte quello dal vivo di Gaza, molto più simile a una gran festa paesana che a una dimostrazione di odio contro Israele. Gli elicotteri della tv di Stato (che in genere risparmia all’osso, e qui invece ha mostrato grande generosità di mezzi) hanno svolazzato in lungo e in largo sul macchinone nero di Arafat; la folla che era venuta a vedere il capo era felice, commossa, ma non impazzita; e così se n’è persino andata in parte a casa dopo che la kefia bianca e nera si è incarnata sotto il solleone e al suono della banda. Il discorso non era tanto importante quanto la visione mistica del capo, gli animi non desideravano essere infiammati da inni di guerra. Né , del resto, Arafat ne ha fatti: Ehud Yaari, il commentatore israeliano di cose arabe più famoso, ha spiegato che il discorso era ecumenico, pacato, un po’ piatto, addirittura non un gran discorso. Proprio come quelli che fanno i capi politici, i ministri, i presidenti, e non i condottieri in guerra. E poi, sul si è scatenata sul piccolo schermo la memoria storica degli israeliani, mista di sollievo per i segnali di pace della visita e lo scampato pericolo di una subitanea esplosione, di qualche rimpianto per i bei tempi in cui le cose erano difficili ma più chiare, e di ripensamenti sul passato. Così si è visto un curioso dibattito fra tutti quelli che avrebbero avuto l’incarico di uccidere Arafat in Libano: Manu Shaki, che fece saltare un edificio di Beirut nel ‘72, in cui avrebbe potuto esserci il leader palestinese; il capo dei servizi segreti, Yehishua Saguy, ormai bonario e tecnico; il capo delle forze aeree Amos Yaron, che bombardò il Libano a duecento metri dalla casa di Arafat: tutti quanti hanno ripetuto che se avessero davvero voluto far fuori Arafat non avrebbero colpito poco distante, ma diritto sul bersaglio, che in realtà Israele ha sempre desiderato un Arafat vivo e politicamente attivo, e non morto e magari sostituito da qualcuno più estremista di lui. Poi è stata la passerella di tutti quelli che, lungimiranti, andarono ad incontrarlo quando vedere Arafat era cosa proibitissima, fuorilegge. I pacifisti Yael Dayan (la deputata radicale figlia di Moshe), Uri Avneri, Charlie Biton, la che lo incontrò con tutta la rabbia che i sefarditi avevano in cuore contro la leadership ashkenazita. Tutti quanti hanno raccontato come fu gentile con loro il capo dei palestinesi, e com’era difficile spiegare al ritorno da Israele che con Arafat si poteva persino scambiare una risata. E come però si rischiava la galera per qualche cosa che poi il primo ministro avrebbe fatto lui stesso: stringergli la mano. Intanto il piccolo schermo ha mostrato agli israeliani un Arafat no-stop, ancora coi capelli neri e quasi magro, o all’ospedale appena caduto con l’aereo e quasi morto, a Beirut fra il fuoco e le fiamme, all’Onu mentre accusa Israele di essere razzista. Ore e ore di eroica e un po’ tantalica osservazione dalle poltrone di casa per un Paese che fino a pochi mesi fa chiamava terrorista l’uomo che peraltro ha versato tanto sangue israeliano e che adesso diviene, per sempre, il Presidente. Fiamma Nirenstein

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