Fiamma Nirenstein Blog

Alla vigilia delle prime elezioni libere, un Paese sospeso tra integr alismo e pressioni dell'Occidente PALESTINA La scommessa della democrazia

martedì 9 gennaio 1996 La Stampa 0 commenti
GERUSALEMME L'ISLAM tradizionale attribuisce, sì , dei diritti: ma soltanto a Dio onnipotente. Dai diritti di Dio derivano tutti i doveri dell'uomo. Arafat grida in questi giorni alla folla, alla vigilia delle prime elezioni palestinesi . Non è un invito a controllare la bontà della sua linea politica, né a battersi contro le sue scelte con le armi della democrazia. È piuttosto un invito a verificare la sua capacità di aderire alla legge sacra. La supremazia della sua persona, della sua legge, nell'Islam, deriva da principi giuridici e religiosi contenuti nel Corano. E anche se dai tempi del Califfato la dottrina della sovranità elettiva e contrattuale dell'Islam originario è decaduta, pure Arafat punta la sua legittimità su due tavoli, di cui uno è certamente quello della fede e del carisma che da esso deriva. Il secondo tavolo è quello del gioco internazionale: Arafat promette, assicura, propaganda la democrazia, invita imbarazzati osservatori internazionali a sorvegliare l'organizzazione e lo sviluppo delle operazioni di voto del 20 gennaio: il consenso internazionale, dopo tanto sostegno alla lotta del popolo palestinese per la terra e l'autonomia, difficilmente potrebbe contentarsi di uno staterello arabo sotto il tallone di un capo carismatico ed autoritario. E guardano ai palestinesi ben di più di quanto non si guardi ai giordani o agli egiziani o (tanto meno) ai siriani o agli iracheni. Alla Palestina più che a chiunque altro viene proposto il calice della democrazia. L'Occidente ce l'ha un po' per vizio di suggerire la sua lista di priorità morali e universali a chi non vuole né può saperne più di tanto. Nel tempo, tuttavia, salvo che per alcune battaglie come quella per i diritti civili che soprattutto l'amministrazione Clinton seguita a costruire, sono sorti molti dubbi che spingere la democrazia in un mondo adesso storicamente e filosoficamente alieno possa generare effetti opposti a quelli desiderati. Per i palestinesi, in ogni caso, si è creata una zona franca di vuoto ideologico: è come se la sola ripetizione della parola potesse d'un tratto creare la democrazia, la prima del mondo mediorientale e dell'Islam. Si sa che Arafat si sta costruendo un suo specialissimo sistema democratico: gli uomini indicati dalle primarie plebiscitarie delle città del West Bank o a Gaza, sono stati prestamente sostituiti nelle liste dai suoi uomini, sia quelli provenienti dal gruppo di Tunisi, l'Olp in esilio, sia da famiglie (, la famiglia allargata, base sociale di tutto il mondo arabo) che gli hanno giurato fedeltà . I cordoni del sistema e dei sussidi economici sono saldamente nelle sue mani. La giustizia si muove su sua diretta e specifica indicazione. L'informazione viene sistematicamente punita, anche con arresti, quando sgarra rispetto al Minculpop locale. Come nel caso dell'arresto del direttore del quotidiano Al Quds Maher Alami. I diritti civili sono un campo proibito, come si vede dall'arresto assai recente di Bassam Eid, un attivista dell'organizzazione Betzelem che aveva sempre difeso i suoi dalle prepotenze israeliane. Ora che i rapporti riguardano il trattamento dell'Autorità Palestinese ai palestinesi stessi, Arafat ha dato subito segno di non apprezzare l'idea dell'indivisibilità dei diritti umani. Pure per due ragioni evidenti la vicinanza, anche l'abbraccio, la presa geopolitica cinquantennale con Israele e in genere con il mondo occidentale e la pressante attenzione internazionale che è una condizione di sopravvivenza per Arafat, la domanda se la Palestina potrà essere, almeno un giorno, il primo Paese islamico democratico ha un certo peso. Il più grande scetticismo alligna fra gli intellettuali palestinesi non allineati. Il filosofo palestinese dell'Università di Bir Zeit Azmi Bishara proclama amaramente la sua disillusione preventiva: sarà uno Stato democratico, è una domanda puramente teorica, dal momento che il suo territorio non si è definito per volontà popolare, né gode di sovranità nazionale, ma nasce da un patteggiamento con Israele. Questa nazione non vivrà di tasse, ma di sostegni internazionali. Sarà una società dipendente. Arafat rappresenta l'autorità che prende i soldi dall'estero e li distribuisce. La democrazia è il passepartout, il "politically correct" che glielo consentirà . Ma la democrazia non è fatta di conti e rendiconti. La Palestina attuale invece, in gran parte lo sarà . E Israele sosterrà Arafat con tutte le sue forze, perché preferisce una mano forte che tenga in piedi il processo di pace. Le nostre elezioni non dovranno definire di chi è il potere: serviranno solo a legittimare il potere esistente. Un potere non sovrano. Hamas fa dunque bene a non partecipare alle elezioni che sono una burla. Mahdi Abdul Hadi, presidente della Società Accademica per gli Affari Internazionali, è più ottimista, anche se parte da un profondo scetticismo mediterraneo, e mostra la sicurezza di coloro che appartengono all'establishment palestinese: democrazia? Negli ultimi anni il mondo palestinese si è spaccato, ricomposto, ha formato sotto gli occhi del mondo partiti, maggioranze e minoranze; l'Intifada ha catapultato nella storia donne, giovani, tutta la popolazione ha imparato cosa significa partecipare. Ora si vede con la nuova autorità , la nuova economia, che diamo la dovuta importanza alle autonomie locali, ai Comuni, alle camere di commercio. Certo, la nostra democrazia deve tener conto della Moschea, deve consultare il mufti per creare e applicare la legge. Vuole la sharia, la legge coranica. Ma i palestinesi d'oggi sanno applicarla con grande considerazione per il sociale; invece Hamas ha preso la decisione storica di porre al centro la religione, di essere un partito nazionalreligioso, che vuole usare la sua forza dall'esterno del sistema. In realtà dice Bernard Lewis, il maggiore storico vivente del Medio Oriente, benché la sharia abbia attribuito storicamente un intenso carattere personale al governo privilegiando il sovrano sullo Stato, il giudice sul tribunale, l'insieme delle famiglie guidate dai vari muhktar sulle città , Penisola Arabica, praticamente in tutti i Paesi musulmani, è stata promulgata una qualche Costituzione, e si riunisce un'assemblea nominata da elezioni di qualche sorta... Il fondamentalismo islamico è solo una delle numerose correnti dell'Islam. E il califfato, anche se è un'autocrazia, non è un dispotismo: un sovrano islamico non è mai stato al di sopra della legge. Può essere cambiato, rimosso se è empio. Inoltre, sin dagli albori, l'Islam, che ha sempre abbracciato una gran varietà di razze e di fedi, non ha condotto sistematiche guerre settarie di religione. L'accettazione del pluralismo gli ha appartenuto, gli può appartenere tutt'oggi. Il professor Leslie Sasser, direttore del centro di studi mediorientali Moshe Dayan, condivide le speranze e lo scetticismo di molti mediorientalisti israeliani: esperienza del mondo arabo non è incoraggiante, pure hanno molte chances di istituire una qualche democrazia; o comunque di avvicinarsi con il loro Parlamento ai migliori del Medio Oriente, come quello giordano o quello egiziano, autocrazie mitigate. I trent'anni di esposizione, sia pur conflittuale, a rapporto con la democrazia israeliana hanno creato una stampa che comunque fino ad ora è stata libera; una situazione giuridica e carceraria che poteva, certamente, uscire di controllo e creare ingiustizie e torture. Ma in questi casi veniva denunciata, processata, condannata. Arafat non vuole fare certo sì che si dica: si stava meglio quando c'erano gli israeliani. Arafat è il leader indiscusso, ma è anche un personaggio sempre sotto lo sguardo attento dell'Europa e dell'America: deve rendere conto di ciò che fa. Cercherà di seguire l'esempio di re Hussein: la sua democrazia non è piena, ma c'è negoziato, c'è considerazione delle minoranze. E oggi c'è anche la capacità di condurre gli islamici all'interno del processo civile, pena uno scontro interno morale come quello che portò la società palestinese decimata dalle lotte intestine alla guerra del '48, al momento dello scontro con gli israeliani. E fu per loro la fine. Il professor Eli Rehkess e il professor Meir Litvak, dell'Università di Tel Aviv, puntano molto, per quello che definiscono democratico sia pure non immediato, sui cosiddetti cresciuti nell'Intifada, gente che oggi ha fra i 20 e i 50 anni, educata soprattutto nella dura disciplina del carcere israeliano. Qui si è imparato a formare un gruppo, a seguire una disciplina elettiva, a studiare le lingue, la storia, la letteratura. Qui si traeva la forza dalla società palestinese circostante, che invece i leader quasi non ricordano più . Si tratta dunque, dei Sarin Nusseiba, i Feisal Husseini, i Sofian Abu Zaide o i capi dei campi profughi. Gente che - dice Rehkess - le sue carte, ma che si prepara per il futuro, dopo il consolidamento dell'autonomia palestinese. In loro l'idea di democrazia è vincente. La vogliono. Arafat lo sa, e tiene basse le loro opinioni e il loro potere. Ma questi sono i palestinesi speciali, quelli resistenti, quelli colti, probabilmente destinati ad avere un prossimo successo. cura l'autocrazia di Arafat. Nonostante nella sua società si annidino anche semi di democrazia più rigogliosi che in altre zone del mondo arabo. Fiamma Nirenstein

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