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Adesso i bambini dormiranno a casa con la mamma La fine del kibbutz

venerdì 9 agosto 1996 La Stampa 0 commenti
IL kibbutz ha proprio finito di farci sognare l'uomo intero, che di mattina è pescatore e contadino e di sera scienziato e poeta; il mondo ideale del socialismo per scelta e non per forza. Dopo anni di smantellamento dell'ultima utopia, il kibbutz Baram in Alta Galilea ha vibrato il colpo di grazia: era rimasto l'ultimo rifugio delle case collettive per i bambini, dove i genitori, dalla nascita dei loro piccoli, si davano i turni di notte; e di giorno i bimbi crescevano con le maestre rigorosamente insieme, senza selezione scolastica di sorta, senza differenze di classe, d'abiti, di alimentazione, di educazione. Tutti figli dello stesso genitore collettivo, liberi di visitare le casette (tutte eguali) della famiglia genetica solo per alcune ore al giorno. Ora Baram non è più quel controverso seppure attraente dinosauro: i membri hanno votato di riprendersi a casa per sempre i loro cuccioli, per la gioia del loro sorriso di prima mattina come hanno detto durante l'assemblea. Il kibbutz è diventato via via sempre di più , invece che la pietra angolare dell'Israele che Ben Gurion sognava, un insieme di villaggi verdi dove l'amministrazione è socialista ma la vita sempre più individuale e libertaria. Si cominciò col differenziare le casette in dotazione ai membri: le prime terribili discussioni trattavano sulla liceità dello scegliersi un colore preferito per la propria stanza. Poi, insorse la questione della sala da pranzo collettiva: chi voleva, poteva cucinarsi su un fornellino in casa? Oppure doveva per forza mangiare insieme a tutti gli altri? E via via vennero tutte le altre domande: c'era chi voleva studiare fuori, chi viaggiare, chi voleva scegliersi un lavoro che nel kibbutz non esisteva come cineasta, o il cuoco gourmet. Poteva farlo fuori? Magari portando a casa i proventi? Le discussioni segnarono anni terribili, sanguinose, spaccarono amicizie e famiglie, procurarono scissioni nei kibbutz e offese personali e ideologiche senza fine. Poi venne la crisi economica, e lo scarso rendimento delle imprese agricole, mentre il consumismo assediava le piccole case nel verde, il paradiso ormai perduto: a chi bastavano più i turni sulla vecchia automobile al servizio di centinaia di membri in un unico collettivo, o la tv unica in sala da pranzo? I giovani cominciarono ad andarsene, prima a uno a uno, poi diventarono un fiume in fuga, una marea dilagante. E allora il kibbutz cominciò a mollare: le case divennero diversa l'una dall'altra a seconda dei gusti del proprietario; si andò a lavorare e a studiare fuori; a casa si poteva mangiare russo o italiano a scelta; si introdusse persino una moderata possibilità di guadagno e di acquisti. Adesso c'è chi sogna di cominciare a costruire molti, troppi residence d'agriturismo e anche case a schiera sulla terra dei kibbutz una volta dedicata esclusivamente ai mandarini e alle mitiche arance israeliane, la terra, un bene preziosissimo per un Paese minuscolo come Israele. Il kibbutz Baram, che teneva il dito infilato nella diga, l'ha tolto. Ora, potrebbe arrivare la piena. Fiamma Nirenstein

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