A RAMALLAH, NEL QUARTIER GENERALE DI ABU MAZEN Speranze e manovre in Palestina alla vigilia del voto Telefonate agli elettori: « Siate padr oni del vostro futuro» . Il vice del favorito alla presidenza: « Da noi il terrorismo non è un’ ideologia»
giovedì 6 gennaio 2005 La Stampa 0 commenti
RAMALLAH
LA città ha ripreso in questi giorni la faccia di quando era un posto di
villeggiatura per la borghesia palestinese: le ville sulle colline si
moltiplicano in audaci architetture, la gente è tutta per le strade, intorno
a piazza Al Manara i negozi sono animati e ricchi di buone merci, nei
ristoranti si servono insalate orientali a raffica, e la sera si ricomincia
a far tardi. La Muqata non è più l’ oscuro cuore pulsante della città , la sua
casamatta e il suo memento mori. Ramallah, uscita dal lutto e dalla guerra,
è tappezzata di manifesti elettorali di Abu Mazen e del suo oppositore
principale, Barghuti, oltre che da pochi ritratti di Arafat. « Vi parlo a
nome di tutto il mondo: venite a votare, il vostro voto è importante per
tutti» .
Prime elezioni - mancano ormai solo tre giorni - senza Arafat, prime,
misteriose, fatali elezioni che promettono, nascondono, suggeriscono, negano
un possibile futuro di pace. « Secondo te - dice all’ aiutante de La Stampa,
Massad, il giovane Maher, uno dei proprietari del ristorante “ Nazareth” -
Abu mazen se la rimangia o no la richiesta di smetterla con i missili
Qassam?» . Domanda da cento milioni che è diventata la vera chiacchera del
Paese. Dirà sul serio, insomma, quando chiede di deporre le armi? O dice sul
serio quando chiama Israele « il nemico sionista» lasciando a bocca aperta
Tayyeb Abd el-Rahim, il suo secondo che nemmeno al Raì ss, di cui era il più
vicino sodale, aveva più sentito usare quell’ espressione da tempo? Eppure,
anche se non si capisce bene e fino in fondo chi sia Mahmud Abbas alias Abu
Mazen, pure l’ identikit del suo elettore, che, anticipiamo, è un’ identità
doppia ma non troppo, si capisce quando si passa qualche ora dentro il
quartier generale, nella zona dei ministeri e vicino alla casa di Abu Mazen.
Ecco la sua interminabile processione di Mercedes nere che entra a Ramallah
di ritorno da Gaza e scorre verso la sua alta dimora tutta coronata di
antenne televisive. La grande chiave segreta di queste elezioni, il
barometro su cui si deciderà se Abu Mazen avrà più o meno di quel 65%
garantito da Al Fatah, non è nei suoi discorsi: i discorsi lasciano il tempo
che trovano. E’ nascosta ai due opposti capi di un arcobaleno: da una parte
troviamo un gruppo di notabili e un gruppo di ragazzi. Siedono nel suo
quartier generale e si sforzano di portare i voti a casa. Per motivi
diversi, hanno bisogno sia della pace sia di Al Fatah, potentissime macchine
motrici di vita, garanzia di tranquillità sociale. E stavolta vanno insieme.
Nella « operation room» incontriamo una dozzina di ragazzi sui vent’ anni
seduti tutti intorno a un lungo tavolo con molti telefoni, ciascuno con la
sua lista di nomi che vengono espunti dopo ogni telefonata riuscita. I
giovani sono volontari, spiega Fahed Wahibi, il funzionario che dirige il
gruppo, un elegante trentaduenne, e telefonano ai votanti per convincerli ad
arrivare alle urne dai villaggi più lontani, sfiduciati verso il potere e
spaventati dai check-point come sono: « Gli diciamo: tu come individuo puoi
cambiare le cose, il diritto di votare è un grande successo personale e per
il popolo palestinese. Sii padrone del tuo futuro. E troviamo una gran
voglia di rompere la disperata situazione in cui vivono, poveri, isolati, in
lutto, con i familiari in prigione. Sentiamo che vogliono rompere le
sbarre» .
I ragazzi sono studenti di Bir Zeit e testimoniano con molto calore una
inequivoca sensazione di emergenza, la voglia di uscire dalla gabbia dei
quattro anni e mezzo di Intifada che li ha impoveriti, resi vittime o
aggressori in una guerra senza quartiere, preda di un destino in cui gli
israeliani sono per loro solo soldati fonte quotidiana di morte e di
oppressione. Una insegnante di 25 anni, Maha, spiega il suo volontariato:
« Cerco lavoro da un anno e mezzo. Sto qua adesso perché voglio un futuro, un
domani...» . Rania Adwan, laureata in sociologia e con lei lo studente di
economia dell’ università di Bir Zeit, Hassam Shreteh, e Abdallah, sempre di
Bir Zeit, dicono quello che pochi osano: « Non è buona la violenza, punto e
basta. Comunque Abu Mazen è la nostra via per comporre lo scontro. Fermare
il terrorismo? Alt! Quale terrorismo? Ah, la violenza. Ok. Sì , fermare la
violenza. Non lo vede che hanno già smesso? Ok, i Qassam, d’ accordo.
Smetteranno. La cosa più importante è fare la pace con gli israeliani.. La
persona più adatta, l’ unico è Abu Mazen» . No smoking qui, dice una ragazza
col velo al giovane Mohammad che ha messo su il sito web di Abu Mazen e che
ce lo mostra fra sbuffi da locomotiva.
Nella sala accanto Tayyeb Abd el-Rahim, grande capo storico, ministro, ci
offre il tè e qualche risposta; intanto, entrano e escono i Tanzim
provenienti da ogni parte dell’ Autonomia, Abd el-Rahim li benedice,
abbraccia Abu Sukkar, da poco fuori del carcere, il più vecchio di quelli
che i palestinesi chiamano prigionieri politici e gli israeliani terroristi.
E’ decisamente sul versante della modernità : « Ci siederemo al tavolo delle
trattative con la mente aperta. Altrettanto dovranno fare loro: risolveremo
il problema del diritto al ritorno secondo la Risoluzione 194 e l’ idea che
devono esistere due Stati (come dire: l’ arrangiamento non imporrà
un’ alluvione di profughi che distrugga Israele con la demografia, ndr).
Gerusalemme è fuori discussione, e anche i confini del ‘ 67. Quanto al
terrorismo, più del 50% del nostro popolo è contro, noi realizzeremo il
volere del popolo. Per noi quello che lei chiama terrorismo non ha radici in
scontri etnici o religiosi o nell’ ideologia, come per l’ Iraq, o Bin Laden. I
palestinesi sono sempre stati il più avanzato popolo mediorentale, il più
colto e civile, non c’ è qui ideologia del terrorismo» .
Abd el-Rahim fa uno sforzo rivoluzionario rispetto al puro e semplice « qui
non c’ è terrorismo ma combattenti per la libertà a causa degli israeliani» :
propone una legittimità palestinese, ci pare, per un prossimo rifiuto del
terrorismo. Si vede che il gruppo dirigente ci sta pensando. Ma, gli
diciamo, se la lotta al terrore non diventa un tema esplicito di Abu Mazen
distruggerà ogni trattativa. Abd el-Rahim preferisce reiterare: « Noi
costruiremo la prima democrazia laica araba, i nostri vicini ci guardano con
vera preoccupazione» . Peccato che invece la violenza sia difficile da
smontare, che la tv palestinese di nuovo una settimana fa abbia mandato in
onda un sermone che per bocca del leader religioso Hassan Kater incitava a
uccidere gli ebrei dovunque si trovino e minacciava gli Usa: « Se sposterete
l’ ambasciata a Gerusalemme questa sarà l’ ultimo chiodo nella vostra bara» .
La radice del terrorismo è profonda e ideologica, difficile da sradicare,
connessa a cinque anni di « shahidismo» , culto del martirio, che viene
ribadito anche nei discorsi di Abu Mazen.
E tuttavia, una chiave per smontarlo c’ è dall’ altro lato dell’ arcobaleno, e
ce la forniscono un episodio e un colloquio con il capo della campagna
elettorale, dottor Muhammed Shteyad, economista, un quarantenne molto
brillante. Nel suo studio entrano sei giovani di Jenin, di quelli che hanno
organizzato le manifestazioni nell’ area, in cui Zakariya Zubeidi, super
ricercato e capo locale dei « Martiri di Al Aqsa» , ha portato Abu Mazen sulle
spalle nella città più dura della Cisgiordania, e gli ha messo in mano il
sostegno delle Brigate. Devono essere risarciti di tutte le spese sostenute
per il ricevimento, hanno un diretto, deciso ma rispettoso colloquio con il
dottor Shteyad, il quale li complimenta per la riuscita delle iniziative e
li dirige all’ amministrazione. I giovani sono quasi ragazzi, Tanzim di Al
Fatah confinanti con la clandestinità , cresciuti fra le armi, poveri, molto
fieri, stremati dalla lunga rivoluzione sanguinosa, le scarpe consunte, i
modi di chi sta fuori da un consesso sociale tipico da tempo, ma che
sembrerebbe desideroso di un po’ di bene dalla vita. « Come li convincete a
sostenere Abu Mazen? E come convincete Zubeidi, e quelli ricercati come lui,
che il candidato più morbido è la sua migliore carta? Cosa ha promesso Abu
Mazen a gente che sa solo la guerra?» . Muhammed Shteyad ride e stringe gli
occhi chiari: « Gli ha promesso la vita, la vita! Lavoro, famiglia, tornare
allo scoperto! Non dover temere le eliminazioni israliane ogni momento, o la
prigione! E ha promesso alle famiglie di seimila prigionieri di riavere i
loro cari. Questa è una società chiusa in prigione, perseguitata dalla morte
imminente. Lo Stato, la pace, la riforma, la democrazia: per noi... per
loro, la vita stessa» . E’ bello crederci nel tramonto di Ramallah, costruita
in pietra di Gerusalemme.