16 ottobre '43: una ferita ancora aperta
C’è un segno di dolore nella Comunità di Roma, nonostante la sua vibrante vitalità. Specialmente le donne, che sono madri, hanno come un eco rauco nella voce. Un segno di dolore e di tradimento. Si racconta che alcuni fra i 207 bambini che furono deportati fra i 1259 ebrei trascinati via, molti in pigiama e camicia da notte alle 5 di mattina del 16 ottobre 1943, svariati furono gettati dal primo piano dentro i camion, come pesi morti, per poi finire ad Auschwitz. I rastrellamenti non si limitarono al ghetto dove gli ebrei vivevano dal 1555: i tedeschi inseguirono le famiglie ebraiche in tutta Roma, per esempio in Trastevere, e la città intera porta le cicatrici delle urla dei nazisti, delle spinte per le scale, delle botte col calcio del fucile, delle fughe disperate a piedi, senza le proprie cose, senza i propri cari, dietro il primo angolo, sul primo tram, via per sempre. Anche Kappler, il comandante tedesco della deportazione, lo riporta: non ci furono manifestazioni antisemite di giubilo, come invece era accaduto in molte città d’Europa dove imperversavano le razzie. Ma neppure proteste. Le leggi razziali del ‘38, che nel dibattito storiografico sono ritenute da alcuni molto più blande di quanto non siano state effettivamente, sono a volte state viste come una blandizie mussoliniana nei confronti di Hitler, una concessione del duce che invece non aveva, secondo alcuni, nulla contro gli ebrei e non condivideva il razzismo dell’alleato tedesco. Molti italiani, si dice oggi, non capirono come mai si privassero di diritti consolidati e acquisiti i loro concittadini, ormai tali da duemila anni, ovvero dal tempo di un’altra deportazione, quella di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo, da parte dei Romani.
Ma mia madre mi ha raccontato che nessuno dei compagni di scuola o dei professori levarono una sola voce per protestare contro il suo allontanamento, né contro quello di sua sorella. Quanto al nonno Giuseppe Lattes stesso, un distinto dipendente della Banca commerciale italiana, oltretutto reduce della prima Guerra mondiale, la sua cacciata dal lavoro non fece alzare un sopracciglio. E i fratelli antiquari di mia nonna furono denunciati e catturati a causa delle spiate dei loro dipendenti, che poi, così mi è stato raccontato, si impossessarono dei loro negozi.
Gli ebrei del ghetto di Roma furono traditi due, tre volte: furono innanzitutto, in modo assai semplice e fattuale, traditi dai tedeschi. Kappler, ormai padrone di Roma, chiese la consegna di 50 kg d’oro in cambio della salvaguardia, e ognuno ha visto al cinema la disperata raccolta di fedi, catenine, piccole stelle di David da cui quel popolo semplice si separò, raggiungendo in fretta la quota raggiunta e superandola fino a 80 kg, certo che quello scudo di difesa tutto d’oro li avrebbe salvati.
La lezione, tuttavia, rimase la solita nei secoli: la violenza antisemita non conosce patti quando non sei considerato un interlocutore, ma un essere inferiore, un subumano.
L’interiorizzazione dell’impotenza fu precedente alla deportazione: la direzione ebraica, dice Raul Hilberg nel testo fondamentale La distruzione degli ebrei d’Europa, benché consapevole del pericolo, restò acquattata e zitta per non provocare ulteriormente i tedeschi e per non allarmare gli ebrei. Il rabbino capo Zolli fuggì (nel ‘44 si fece cristiano), nessuno chiuse la sinagoga. Gli ebrei, e questo è il secondo tradimento, furono traditi dalla fiducia nell’idea che non si sarebbe andati oltre, tanto che il pontefice non avrebbe consentito la deportazione sulla soglia della sua casa. Ci fu un flebile tentativo dell’arcivescovo Hudal, curato della Chiesa tedesca di Roma, che lanciò un appello al generale Stahel. Non ottenne niente, e non si fece null’altro, né per prevenire né, più tardi, per protestare. Il Papa, con grande sollievo di Hitler, mantenne il silenzio. Ciò non significa che i monasteri non si dettero poi da fare per nascondere gli ebrei fuggiti, circa la metà della comunità. Ma il blando popolo italiano di fatto assistette alla terribile razzia del ghetto senza colpo ferire. Il 30 novembre il ministero dell’Interno italiano emise istruzioni rivolte ai capi delle province nelle quali si stabiliva che gli ebrei dovevano essere raggruppati in campi di concentramento e che i loro beni dovevano essere sequestrati. L’illusione degli italiani brava gente si infrangeva sulla Repubblica di Salò: le legioni, la polizia, i carabinieri, la milizia riuniti nella Guardia nazionale repubblicana, i membri del Partito fascista riuniti in “Brigate nere” si resero disponibili per le retate.
È logico pensare che dopo il mostruoso evento delle deportazioni e dopo le leggi razziali, l’Italia avrebbe dovuto chiedere perdono in ginocchio. Ciò non accadde affatto. Per abrogare le leggi razziali dal 25 luglio ‘43 si deve arrivare al 20 gennaio del ‘44, e per stabilire una prima forma di indennizzo si arriva addirittura al marzo del ‘55. Molti analisti, come Giorgio Israel, hanno dimostrato come gran parte dell’intellettualità più stimata non abbia mai fatto ammenda per il suo antisemitismo, e come i maggiori nomi dell’Accademia messi in cattedra a spese delle epurazioni dei professori ebrei siano rimasti intatti fari della cultura italiana. Mi ha sempre stretto il cuore pensare che quando il professore Attilio Momigliano fu reintegrato nella sua cattedra, la trovò sdoppiata perché quello che gliel’aveva portata via potesse restare al suo posto. Sdoppiata. Questa è l’immagine che gli ebrei italiani non possono dimenticare del loro alveo italiano, checché possano sostenere per amore di pace e nonostante le ripetute affermazioni di solidarietà degli anni successivi. Da una parte brilla l’immagine dell’italiano affettuoso e amichevole, il cui migliore amico è sempre ebreo, che subisce le leggi razziali senza poi intenderle veramente. Ma essa resterà storicamente contraddetta dall’ inerzia e persino dall’opportunistica complicità di chi ha subito nella sua capitale la selvaggia razzia di quel giorno di ottobre.
Adesso, l’Italia, come quasi tutti i Paesi europei è di nuovo contagiata dalla tabe dell’antisemitismo. I dati sono impressionanti, le sue espressioni sanguinose. Se ci fosse un sussulto di dignità, la lotta per combatterlo da parte di chi ha assistito o ha partecipato all’eliminazione di 6 milioni di persone, dovrebbe essere furiosa, determinata. Ma non è così: la paura di dispiacere di infrangere un tabù intoccabile, il rifiuto di guardare in faccia residui di destra e di sinistra della malattia peggiore che il nostro continente abbia mai contratto, la difficoltà di intimare alla componente islamica immigrata, veementemente antisraeliana e antisemita, di cessare dall’incitamento antisemita e antisraeliano, disegna uno scenario pauroso e incerto per il futuro. Le continue menzogne su Israele che anche Napolitano ha riferito soprattutto a una strisciante ripresa dell’antisemitismo, non vengono di fatto condannate né combattute. Il ghetto è stato di nuovo assalito dall’antisemitismo che ha fatto decine di feriti ed è costato la vita nell’82 al bambino Stefano Tachè. Gruppi di fanatici hanno assalito gli ebrei romani a casa loro ripetutamente. Le deportazioni sono lontane, il nazismo è morto, ma il lavoro da fare per curare la ferita è ancora tanto.
Il dolore di quel Male immenso, io figlia e nipote di persone che hanno vissuto i modi del lacerare delle bestie, lo porteremo con noi fino alla fine dei tempi. Allora, ma anche ora, comincerà ad reagire la Potenza Invincibile del BENE IMMENSO.Spero tanto Onorevole Nirenstein di fare quello che ha fatto Lei, Vivere per sempre in Israele.Con tanto affetto.
Ilaria , Rivoli
E' tremendo pensare quante volte un uomo é stato oltreggiato e dileggiato, martoriato e vilipendiato, e ancora adesso si sentono tanti fatti di cronaca e tanti fatti dal mondo di tale tipo. E' orribile, ma ci giriamo sempre dall'altra parte!!
Francesco Peverini , Italia
Un articolo profondamente vero e coraggioso.